La figlia di Paolo Ceravolo, ricercatore alla Statale di Milano, era su quel pullman mercoledì quando l’autista Ouesseynou Sy, un uomo di origine senegalese, l’ha sequestrato e gli ha dato fuoco con a bordo una scolaresca di Crema sulla provinciale 415 che collega Pantigliate a San Donato Milanese. 50 ragazzi che all’improvviso si sono ritrovati all’Inferno. Quando lo raggiungiamo è chiaro, ancora, lo sconcerto. «Noi siamo stati tra i primi a essere avvisati perché mi figlia è caduta e ha sbattuto la testa. Per questo l’hanno trasportata quasi subito in ambulanza al pronto soccorso. Ci ha avvisati il docente di educazione fisica dicendoci che, sin da subito, non c’era pericolo. Ma non è difficile immaginare l’ansia e l’angoscia di noi genitori».
No, non si può immaginare. Particolarmente in una situazione come quella di mercoledì che aveva del surreale. «Una situazione all’inizio non molto chiara» ci racconta Paolo, «che nel giro di una mezz’ora si è risolta sapendo che nostra figlia era stata trasportata alla Clinica De Marchi dove ci siamo recati velocemente, avendo così la possibilità rispetto ad altri genitori, di vederla quasi subito. Il che ci ha aiutato molto perché ci ha permesso di renderci conto che la situazione sanitaria non era grave e parlando con lei che anche da un punto di vista psicologico non era drammatica. Per quanto, di certo, confrontandoci con nostra figlia e altre compagne abbiamo registrato un trauma notevole e quindi la necessità di avere ancora maggior attenzione e cura nei confronti di questi ragazzi».
Paolo che il giorno dopo ha scritto un tweet: “Fa paura pensare in che mondo stanno crescendo i nostri figli. L’odio genera solo odio, le parole di odio generano pensieri di odio. Loro adesso hanno bisogno di amore. Un po’ di più di ieri”. «Ispirato dalle prime parole che mi ha detto mia figlia e poi perché se ci troviamo in questa situazione è anche a causa del clima di odio e scontro che c’è e che di anno in anno aumenta nella società. Da qui il rifiuto viscerale di atteggiamenti anche solo verbali che alimentino questa ostilità. E la necessità di capire che i nostri ragazzi oggi più che mai hanno bisogno di cura e amore».
Ragazzi che si sono resi conto di tutto, dall’inizio alla fine. «E che hanno dimostrato una grande maturità nel gestire la situazione. Tutti hanno mantenuto la calma e tutti hanno collaborato, fino addirittura a chi ha avuto gesti coraggiosi. Una ragazzina si è alzata in piedi, diversamente da quel che le aveva detto il sequestratore, per indicare ai carabinieri che c’era della benzina. Quando Rami chiamava attraverso il cellulare che aveva tenuto con sé diceva agli altri di fare rumore perché non lo sentissero. Mia figlia stessa, con altre compagne, pregava ripetendo dei sonetti di Dante perché durante un’attività fatta sulla Shoah ricordava che la prof di lettere gli aveva raccontato che i deportati, per evitare di cadere nell’angoscia pensavano a cose belle».
Per non parlare della qualità dell’intervento delle forze dell’ordine e dei primi soccorsi. «E di chi era in strada perché tra loro, oltre a chi si è perso coi cellulari a fare filmati, c’è chi si è dato da fare per i nostri ragazzi. Come la signora che, senza conoscerla, è salita sull’ambulanza e ha sostenuto mia figlia fino all’arrivo in ospedale». Un episodio di odio seminato d’amore. «Ecco perché allora scatta la repulsione verso chi alimenta l’odio. Perché questa situazione è frutto dell’odio. Visti gli effetti, allora dico, fermiamo le parole di rabbia e di rancore e sottolineiamo quelle positive, d’amore; i tanti gesti belli che emergono da questa vicenda. Il che naturalmente non significa che chi è responsabile non dovrà risponderne».