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«Mia sorella, la numero 72»

06/01/2014  Musie Shishay, 32 anni, padre della chiesa coopta ortodossa, è fuggito dall’Eritrea nel 2007 per le continue minacce che riceveva dal regime di Afewerki. La sorella ha cercato di raggiungerlo in Italia. Ma non è mai arrivata. È morta nella strage di Lampedusa del 3 ottobre 2013. «È la numero 72», dice padre Musie, rileggendo l'ultimo sms che gli ha inviato.

L’Eritrea è un Paese che si è caratterizzato nell’ultimo decennio per una forte discriminazione verso tutte le minoranze religiose. Prima gli attacchi agli ortodossi e ai musulmani, poi la chiusura delle missioni protestanti. Ora la scure si è abbattuta sui cattolici. Il disegno del Governo eritreo prevede, oltre all’espulsione dei missionari, la confisca delle proprietà delle Chiese, sul modello della Chiesa patriottica cinese, totalmente sotto il controllo dello Stato.

La Chiesa cattolica, rifiutando l’ingiunzione al servizio militare dei sacerdoti, ha ricevuto l’ordine di consegnare scuole, cliniche ed altre strutture sociali. La Chiesa evangelica è stata, ugualmente, fortemente colpita: migliaia di persone sono state arrestate e torturate. Dal 2002 il Governo Eritreo ha sistematicamente eliminato ogni comunità religiosa che si ponesse in contrasto con quelle ufficialmente riconosciute e sostenute dalla Stato.

Nel 2005 è avvenuto l’episodio che ha fatto da spartiacque. È stato rimosso dal suo incarico il terzo patriarca della chiesa ortodossa eritrea Abuna Intonios che si è rifiutato di accettare le condizioni che il Governo voleva imporgli: smettere di interferire con la Chiesa e non rilasciare i membri che erano tenuti in prigione per la loro fede. Per questo motivo è stato arrestato e oggi si trova ancora in carcere. La chiesa ortodossa si è trovata con un nuovo Patriarca, Yoftahe Dimetros, imposto dal Governo ma non riconosciuto dalla gente.

In questo difficile contesto in molti hanno deciso di abbandonare l’Eritrea e hanno iniziato un lungo percorso attraverso il Sudan e la Libia verso l’Europa. Tante persone sono scappate. Per la grandissima povertà dell’Eritrea che non offre alcuna prospettiva lavorativa se non quella di entrare a far parte dell’esercito. Per i continui episodi di violenza e di utilizzo indiscriminato della forza e della violenza da parte dello Stato.

Musie Shishay, 32 anni padre della chiesa coopta ortodossa, è fuggito dall’Eritrea nel 2007 per le continue minacce che riceveva. Ha voluto abbandonare un Paese in cui non esiste libertà di informazione e non vi è alcuna prospettiva per chi tenta di professare la propria religione. Voleva raggiugere la Gran Bretagna si è invece fermato a Lampedusa “perchè – racconta – avrei voluto non essere costretto ad essere registrato come richiedente asilo in Italia ma la legge prevede che si debba lasciare le proprie impronte digitali nel primo Paese in cui si arriva”.

Un viaggio sofferto. Una storia già sentita troppe volte. Il deserto, i lunghi percorsi a piedi, i mezzi di trasporto di fortuna, l’attesa in un campo in Libia prima di provare, con una carretta del mare, ad arrivare a Lampedusa. Ha dovuto pagare, anche lui quasi 3.000 euro per arrivare in Italia.

Hagerawit Shishay, 22 anni, morta nella strage di Lampedusa, sorella di padre Musie (nella foto di copertina).
Hagerawit Shishay, 22 anni, morta nella strage di Lampedusa, sorella di padre Musie (nella foto di copertina).

Hagerawit Shishay aveva 22 anni. E' morta in mare, a un passo da Lampedusa, insieme ad altri 365 immigrati.

Da qualche anno vive a Lodi, all’interno del Progetto Nazionale dei rifugiati politici, e, ogni domenica, recita la messa per una piccola comunità eritrea.

Nella tragedia di Lampedusa del 3 ottobre ha perso la sorella. Hagerawit Shishay aveva 22 anni. Suo marito lavorava nell’esercito e guadagnava 150 nakfa (la valuta eritrea) al mese, pari a poco più di sette euro. Aveva un bambino di tre anni. Ha deciso di scappare, senza avvisare né la madre né il marito, dopo essere stata arrestata, quasi per paradosso, perché accusata di ipotizzare una sua fuga dall’Eritrea. È stata rapita in Sudan. La famiglia è stata costretta a pagare un riscatto per farla rilasciare.

“Ha proseguito il suo percorso fino al campo in Libia dove – ricorda padre Musie – ha festeggiato telefonicamente il terzo compleanno del suo bambino. Mi ha inviato un sms che ancora conservo e che mi commuove ogni volta che lo rileggo”.

“Ho deciso di partire – scriveva Hagerwit qualche giorno prima della tragedia – e ti chiedo di pregare per me e per i nostri familiari. Ci rivedremo presto secondo la volontà di Dio.” È morta mentre attraversava, insieme ad altre 500 persone, quasi tutti eritrei, il mare davanti a Lampedusa. Sono morti in 366, di cui 16 bambini. I superstiti sono stati 157.

Un viaggio che vale oltre un milione di dollari, tenendo conto che ogni persona paga, solo per il tragitto con la barca, oltre duemila dollari. Una dimensione economica impressionante che da l’idea di quale business si nasconda dietro i “viaggi della speranza”.

“Mi sono recato a Lampedusa – prosegue padre Musie – per riconoscere il corpo di mia sorella, ma non ho potuto piangere né il suo corpo né vedere la bara. Ho potuto procedere al suo riconoscimento solo grazie a una foto e all’aiuto di un ragazzo sopravvissuto che viveva nello stesso Paese di mia sorella in Eritrea”. “Mi hanno dato solo un freddo numero: il 72. È con quel numero che si identifica la bara”.

Sono quei numeri che abbiamo visto in tanti servizi televisivi o sui giornali. “Ho parlato con mia madre – dice Musie – che non vuole credere alla morte di sua figlia e implora Dio di farle vedere che non è vero”.

Oggi padre Musie teme di parlare con la madre e con i propri familiari perché è consapevole che le chiamate sono controllate dal Governo. Non è libero di raccontare nulla. Non ha però paura, convinto che “la sua bocca si chiuderà solo da morto”.

Sogna Musie di poter riportare – anche per le promesse pubbliche del suo Governo – sua sorella in Eritrea, da sua madre. Per ora gira però solo con un foglietto in tasca con il numero 72 e non gli resta che rileggere sul cellulare l’ultimo messaggio di sua sorella.

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