L’Eritrea è un Paese che
si è caratterizzato nell’ultimo decennio per una forte
discriminazione verso tutte le minoranze religiose. Prima gli
attacchi agli ortodossi e ai musulmani, poi la chiusura delle
missioni protestanti. Ora la scure si è abbattuta sui cattolici. Il
disegno del Governo eritreo prevede, oltre all’espulsione dei
missionari, la confisca delle proprietà delle Chiese, sul modello
della Chiesa patriottica cinese, totalmente sotto il controllo dello
Stato.
La Chiesa cattolica,
rifiutando l’ingiunzione al servizio militare dei sacerdoti, ha
ricevuto l’ordine di consegnare scuole, cliniche ed altre strutture
sociali. La
Chiesa evangelica è stata, ugualmente, fortemente colpita: migliaia
di persone sono state arrestate e torturate.
Dal 2002 il Governo Eritreo
ha sistematicamente eliminato ogni comunità religiosa che si ponesse
in contrasto con quelle ufficialmente riconosciute e sostenute dalla
Stato.
Nel 2005 è avvenuto l’episodio che ha fatto da spartiacque.
È stato rimosso dal suo incarico il terzo patriarca della chiesa
ortodossa eritrea Abuna Intonios che si è rifiutato di accettare le
condizioni che il Governo voleva imporgli: smettere di interferire
con la Chiesa e non rilasciare i membri che erano tenuti in prigione
per la loro fede. Per questo motivo è stato arrestato e oggi si
trova ancora in carcere. La chiesa ortodossa si è trovata con un
nuovo Patriarca, Yoftahe Dimetros, imposto dal Governo ma non
riconosciuto dalla gente.
In questo difficile contesto
in molti hanno deciso di abbandonare l’Eritrea e hanno iniziato un
lungo percorso attraverso il Sudan e la Libia verso l’Europa. Tante
persone sono scappate. Per la grandissima povertà dell’Eritrea che
non offre alcuna prospettiva lavorativa se non quella di entrare a
far parte dell’esercito. Per i continui episodi di violenza e di
utilizzo indiscriminato della forza e della violenza da parte dello
Stato.
Musie Shishay, 32 anni padre
della chiesa coopta ortodossa, è fuggito dall’Eritrea nel 2007 per
le continue minacce che riceveva. Ha voluto abbandonare un Paese in
cui non esiste libertà di informazione e non vi è alcuna
prospettiva per chi tenta di professare la propria religione. Voleva
raggiugere la Gran Bretagna si è invece fermato a Lampedusa “perchè
– racconta – avrei voluto non essere costretto ad essere
registrato come richiedente asilo in Italia ma la legge prevede che
si debba lasciare le proprie impronte digitali nel primo Paese in cui
si arriva”.
Un viaggio sofferto. Una storia già sentita troppe
volte. Il deserto, i lunghi percorsi a piedi, i mezzi di trasporto di
fortuna, l’attesa in un campo in Libia prima di provare, con una
carretta del mare, ad arrivare a Lampedusa. Ha dovuto pagare, anche
lui quasi 3.000 euro per arrivare in Italia.
Hagerawit Shishay, 22 anni, morta nella strage di Lampedusa, sorella di padre Musie (nella foto di copertina).
Hagerawit Shishay aveva 22 anni. E' morta in mare, a un passo da Lampedusa, insieme ad altri 365 immigrati.
Da qualche anno vive a Lodi,
all’interno del Progetto Nazionale dei rifugiati politici, e, ogni
domenica, recita la messa per una piccola comunità eritrea.
Nella
tragedia di Lampedusa del 3 ottobre ha perso la sorella. Hagerawit
Shishay aveva 22 anni. Suo marito lavorava nell’esercito e
guadagnava 150 nakfa (la valuta eritrea) al mese, pari a poco più di
sette euro. Aveva un bambino di tre anni. Ha deciso di scappare,
senza avvisare né la madre né il marito, dopo essere stata
arrestata, quasi per paradosso, perché accusata di ipotizzare una
sua fuga dall’Eritrea. È stata rapita in Sudan. La famiglia è
stata costretta a pagare un riscatto per farla rilasciare.
“Ha
proseguito il suo percorso fino al campo in Libia dove – ricorda
padre Musie – ha festeggiato telefonicamente il terzo compleanno
del suo bambino. Mi ha inviato un sms che ancora conservo e che mi
commuove ogni volta che lo rileggo”.
“Ho deciso di partire –
scriveva Hagerwit qualche giorno prima della tragedia – e ti chiedo
di pregare per me e per i nostri familiari. Ci rivedremo presto
secondo la volontà di Dio.” È morta mentre attraversava, insieme
ad altre 500 persone, quasi tutti eritrei, il mare davanti a
Lampedusa. Sono morti in 366, di cui 16 bambini. I superstiti sono
stati 157.
Un viaggio che vale oltre un milione di dollari, tenendo
conto che ogni persona paga, solo per il tragitto con la barca, oltre
duemila dollari. Una dimensione economica impressionante che da
l’idea di quale business si nasconda dietro i “viaggi della
speranza”.
“Mi sono recato a Lampedusa – prosegue padre Musie –
per riconoscere il corpo di mia sorella, ma non ho potuto piangere né
il suo corpo né vedere la bara. Ho potuto procedere al suo
riconoscimento solo grazie a una foto e all’aiuto di un ragazzo
sopravvissuto che viveva nello stesso Paese di mia sorella in
Eritrea”. “Mi hanno dato solo un freddo numero: il 72. È con
quel numero che si identifica la bara”.
Sono quei numeri che
abbiamo visto in tanti servizi televisivi o sui giornali.
“Ho parlato con mia madre
– dice Musie – che non vuole credere alla morte di sua figlia e
implora Dio di farle vedere che non è vero”.
Oggi padre Musie teme di
parlare con la madre e con i propri familiari perché è consapevole
che le chiamate sono controllate dal Governo. Non è libero di
raccontare nulla. Non ha però paura, convinto che “la sua bocca si
chiuderà solo da morto”.
Sogna Musie di poter
riportare – anche per le promesse pubbliche del suo Governo – sua
sorella in Eritrea, da sua madre. Per ora gira però solo con un
foglietto in tasca con il numero 72 e non gli resta che rileggere sul
cellulare l’ultimo messaggio di sua sorella.