Michela Murgia parla chiaro, la tragedia della Sardegna la vive sulla pelle prima che nelle sue pagine, reprime la rabbia a favore della lucidità e, da sarda, da intellettuale, da cittadina e da futura candidata alla presidenza della Regione Sardegna, non fa sconti a nessuno.
Ha scritto «Sono nata in Sardegna, per quanti indirizzi io abbia cambiato, non ho mai smesso di abitarla», da quale di questi indirizzi ha appreso la notizia della tragedia che sta funestando la Sardegna?
«In Sardegna a Cabras dove sono nata e dove vivo, a 20 km Terralba, una dalle zone più colpite, ma in questo momento non esistono vite personali, questa tragedia ci colpisce tutti, chi non ha contatti diretti ha l’obbligo morale di mantenere la freddezza necessaria e portare aiuto a chi coinvolto non ha la possibilità di restare lucido e di pensare in generale. I sardi sono una comunità di destino, se ne dimenticano molte volte ma non quando c’è bisogno».
Se ne dimenticano in che senso?
«La fretta della vita quotidiana ci spinge a chiuderci nei nostri cerchi di relazione, nella nostra dimensione di confort, ma quando c’è un problema scatta l’antica usanza della “paradura”: quando un pastore perdeva un gregge, ognuno degli altri regalava una pecora per ricostruirlo».
È in questo spirito che è partito il suo intervento su Facebook: ora raccogliamo le forze, indichiamo i numeri di emergenza e cerchiamo alloggi, dopo ci occuperemo delle responsabilità?
«Prima si aiutano le persone, ma questo non significa che se ci sono responsabilità vadano rimandate, anche perché il passato ci insegna che si rimanda all’infinito e nessuno mai risponde di ciò che accade. Ugo Cappellacci, il presidente delle Regione Sardegna, parla di emergenza epocale, ma è solo in scala più grande è la stessa emergenza che abbiamo affrontato cinque anni fa a Capoterra, dove morirono delle persone e dove ci fu un’alluvione in circorstanze simili a queste, anche se meno distruttive e anche allora si parlò di “natura matrigna”. Non è così, la pioggia non si può prevedere ma le conseguenze della pioggia è nostro dovere prevenire».
Sta parlando in modo molto preciso, qualcosa di preciso si poteva fare e non si è fatto?
«Posso essere ancora più precisa, ed è giusto che io precisi anche che sono candidata alla presidenza della Regione Sardegna: l’81% dei Comuni sardi contiene zone a rischio idrogeologico. Sappiamo che lì con un po’ di pioggia in più si rischia. Una Legge regionale del 1989 obbligherebbe la Regione Sardegna a dotarsi di un piano di protezione Civile ma ancora lo aspettiamo. Vogliamo parlare di catastrofe naturale?».
Anche il resto d’Italia ha problemi simili, perché ragioniamo sempre di emergenze?
«L’emergenza rende politicamente molto più della prevenzione: la prevenzione non ha né ritorno di consenso popolare per la politica, né ritorno economico per gli imprenditori, invece l’emergenza, sull’onda emotiva dei morti, consente di affidare appalti al di fuori del contesto normativo, quindi ad alto rischio di corruzione. L’abbiamo visto all’Aquila, lo rivedremo in Sardegna: mentre oggi noi piangiamo qualcuno si sta fregando le mani».
Da un punto di vista personale, quale sentimento prevale?
«Come cittadina ritengo che i deboli, i bambini, gli anziani, quelli che non hanno potuto accedere alle informazioni per mettersi in salvo abbiano pagato l’incuria di chi doveva prendersi cura di loro. Io ritengo che ci siano responsabilità dirette enormi. I soldi stanziati per il piano di dissesto idrogeologico sono stati revocati nell’agosto scorso. È difficile non provare rabbia davanti a queste scelte, neanche un mese fa l’unione dei geologi avvisava che i fiumi erano sporchi, che si era autorizzato a costruire negli alvei storici: l’acqua ritrova sempre la sua strada, ma se ci hai costruito sopra un ambulatorio come a Terralba come fai?».
Lei ha attivato i suoi canali twitter e facebook, che cosa possono fare le persone normali per dare una mano?
«Prendere in carico la cura che le istituzioni non non hanno avuto. Nelle prime ore non si trovavano i numeri di emergenza sul sito della Regione Sardegna. Chi non li trovava si è rivolto a chi come me aveva tanti contatti su Facebook, ci siamo autoorganizzati: abbiamo aperto un hastag twitter che si chiama #allertameteoSAR per convogliare gli aiuti e far girare le informazioni, ci muoviamo da volontari, non siamo un sito istituzionale ma si vede anche da qui la mobilitazione della Sardegna».
Nel suo rapporto con la Sardegna questa mobilitazione le dà fierezza o prevale la rabbia?
«Mi pare normale che se c’è una fragilità chi non è fragile si dia da fare. C’è una solidarietà fluviale, mi si passi il termine, io spero che questo fiume sia più forte di quello che sta alluvionando la Sardegna. La rabbia deve diventare pretesa di acquisizione di responsabilità: la Regione ha appena varato un piano che si chiama Pps, che smonterà quel che resta del piano salvacoste di Renato Soru, ma alleggerire il vincolo di costruzione vicino ai corsi d'acqua e alle coste è un rischio e questa non è rabbia è chiamare le cose con il loro nome».