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venerdì 25 aprile 2025
 
 

Michele Vietti: «Minacciare il carcere non risolve il problema»

12/07/2013  «Immaginare che la condizione di clandestinità, connessa al semplice ingresso nel territorio dello Stato senza autorizzazione, sia di per sé un reato», afferma il vicepresidente del Consiglio superiore della magistratura, «significa estendere in maniera eccessiva l'ambito del diritto penale, senza peraltro disporre degli strumenti applicativi».

«Mai più morti in mare»: queste le parole pronunciate da papa Francesco durante la sua visita a Lampedusa. Il diritto ad una vita dignitosa interpella la sensibilità di tutti, ma in particolare quella dei cattolici, chiamati a non dimenticare il percorso di sofferenza che conduce i migranti sulle nostre coste.

La piccola realtà dell'isola di Lampedusa, porta d'Europa e non solo d'Italia, offre agli occhi di tutti un grande esempio di solidarietà e sacrificio, come ha ricordato il Santo Padre.

In diecimila hanno assistito alla Sua Messa, accogliendo parole importanti ed anche di forte impatto, come quelle che mettevano in guardia dal pericolo di una "globalizzazione dell'indifferenza".
Non è un'emergenza circoscritta alla sola sfera geografica o politica, è l'emergenza umana, l'emergenza di tutti. Un dramma da ventimila immigrati annegati nel Mare Nostrum e nel silenzio.

Un'emergenza quotidiana, che impone soluzioni rapide ma anche efficaci. La risposta dello Stato si è tuttavia concentrata più sul profilo repressivo e sanzionatorio che non su quello preventivo.
La politica degli accordi con i Paesi di partenza dei migranti è stata timida e sembra già aver esaurito i suoi effetti.

Il legislatore degli ultimi decenni, indipendentemente dal colore politico, messo di fronte alla necessità di rispondere alle più varie emergenze sociali ed economiche, ha pensato bene di moltiplicare le fattispecie penali. L'esempio più evidente di questa tendenza è rappresentato proprio dal reato di immigrazione clandestina.

Ora la sicurezza è certamente un tema delicato e sensibile. Ma il problema della sua percezione da parte dei cittadini e della sua garanzia da parte dello Stato non si risolve minacciando il carcere a tutti per tutto.

Il rischio è che le minacce restino grida manzoniane, se non assistite a monte da un'efficace prevenzione dei fenomeni, se a valle manchi un'effettiva repressione, cioè la certezza della pena, e se in mezzo il passaggio attraverso il processo penale sia come quello del cammello attraverso la cruna dell'ago.

Immaginare che la condizione di clandestinità, connessa al semplice ingresso nel territorio dello Stato senza autorizzazione, sia di per sé un reato, significa estendere in maniera eccessiva l'ambito del diritto penale, senza peraltro disporre degli strumenti applicativi.
Ma significa anche sottovalutare la problematica di ordine etico sottesa alla necessità di uomini e donne, giovani e giovanissimi, alla ricerca di una via di fuga, nella migliore delle ipotesi dalla miseria, quando non dalla morte.  Senza contare che così facendo si rinuncia all'apporto di risorse vitali, indispensabili per un Paese vecchio e stanco come il nostro.

Il legislatore, che in una prima fase aveva pensato di fare della clandestinità una mera aggravante, l'ha poi trasformata in un reato a sé stante. L'effetto è stato quello di intasare sia gli uffici del giudice di pace, competente a conoscere di quei processi, sia i centri di identificazione, tristemente oggetto di mai sopite polemiche sulla loro natura e sulla loro gestione.

Il diritto penale deve perseguire singoli atti criminali, non situazioni soggettive legate ad esigenze migratorie che, se anche non assurgono tutte alla condizione legale di rifugiati o asilanti, hanno quasi sempre alle spalle condizioni di necessità.

È dunque la "distanza" fra la condizione di irregolarità del singolo straniero extracomunitario e il principio di offensività, che deve sempre presidiare le nostre norme penali e il nostro grado di civiltà, a sottolineare la difficile convivenza del reato con i valori tutelati dall'ordinamento.

Tanto è vero che nel 2011 la Corte di giustizia dell'Unione Europea ha stabilito che l'introduzione della reclusione per il semplice irregolare è contraria alla direttiva 2008/115 sul rimpatrio dei migranti.

L'impressione è che dietro questo reato vi sia stato un approccio piuttosto semplificatorio del problema dell'immigrazione, che è invece un problema serio e, proprio perché tale, complesso. È giunto il momento di ripensare la questione e rimeditare le soluzioni del passato.

Il significato semplice e nel contempo profondo della visita del Santo Padre nei luoghi di sbarco deve costituire stimolo per affrontare di nuovo il problema a livello istituzionale, con una visione globale del fenomeno, che parta dagli aspetti umanitari e socio-economici dell'immigrazione; che punti su un'efficace prevenzione, in accordo con tutti i Paesi membri dell'Unione Europea, perché il problema è di tutti, degli Stati di sbarco non meno che di quelli di destinazione finale dei flussi migratori; che conduca ad un ripensamento dell'opzione sanzionatoria di tipo penale, la quale certamente non ha sortito gli effetti sperati dai suoi promotori, ma ha anzi ulteriormente aggravato il già precario stato della giustizia nel nostro Paese, senza nemmeno migliorare le condizioni di sicurezza dei cittadini.

«Un uomo scendeva da Gerusalemme a Gerico…»: la parabola ricorda anche oggi a ciascuno di noi chi è il "prossimo", che non necessariamente è il vicino ma anzi spesso è lo sconosciuto che viene da lontano, e come lo si deve trattare, con l'inevitabile corollario che chi tira dritto per la sua strada facendo finta di niente non trova posto nel Regno dei cieli, ma forse sta a disagio anche sulla terra.    

Michele Vietti (vice presidente Consiglio Superiore della Magistratura)

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