Più dei numeri, lo raccontano le cicatrici sul corpo e la paura negli occhi. Gli uomini e le donne che oggi tentano di raggiungere l’Europa, per scappare da Paesi in guerra o da calamità naturali, in base ad accordi internazionali sono “contenuti” da Libia e Turchia, considerati “Stati non sicuri” da organismi umanitari e della società civile. «Nell’ascolto delle storie personali è emersa in maniera drammatica la rappresentazione dei centri di detenzione libici: luoghi fortemente traumatizzanti, dove torture e violenze di ogni tipo vengono esercitate quotidianamente su uomini e donne inermi. Circa il 35 per cento dei pazienti che si sono rivolti al Centro salute migranti forzati sono risultati vittime di tortura o maltrattamenti, di tratta, di mutilazioni genitali femminili e portatori di disturbi post-traumatici»: padre Camillo Ripamonti, presidente dell’associazione Centro Astalli, presenta il bilancio di un anno di lavoro.
Il ramo italiano del servizio dei Gesuiti per i rifugiati (Jesuiti refugee service) è un osservatorio interessante per capire, partendo dal contesto italiano, cosa si muove a livello globale in una materia complessa e articolata, spesso oggetto di fake news e di letture populiste e ideologiche. E che nei giorni scorsi è stata al centro di due importanti iniziative della Chiesa cattolica: la pubblicazione degli Orientamenti pastorali sugli sfollati interni e del messaggio di papa Francesco per la Giornata per il rifugiato (27 settembre), intitolato “Come Gesù Cristo, costretti a fuggire. Accogliere, proteggere, promuovere e integrare gli sfollati interni”.
Il 2019, evidenzia il Rapporto Annuale di Astalli, è stato “l’anno delle vite sospese”: migliaia di migranti hanno vissuto confinati in una sorta di limbo. Dimenticati nelle carceri libiche, nei campi profughi delle isole greche o persino sulle navi che li hanno soccorsi, «mentre l’Italia e gli altri Stati dell’Unione europea ingaggiavano un vergognoso braccio di ferro su chi dovesse accogliere poche decine di persone». Sono circa 200mila i rifugiati che vivono in Italia. E i numeri dicono che nel 2019 solo 11.471 sono approdati nel nostro Paese (facendo registrare un calo di oltre il 50 per cento rispetto al 2018 e del 90 per cento in relazione al 2017). «Abbiamo più volte denunciato, anche con le organizzazioni del Tavolo nazionale asilo, che la diminuzione degli arrivi è soprattutto legata all’incremento delle operazioni della Guardia costiera libica: nell’ultimo anno 8.406 persone intercettate nel Mediterraneo sono state riportate in Libia e lì detenute in condizioni che le Nazioni Unite definiscono inaccettabili», dice Ripamonti. Altissimo il tasso di persone che hanno perso la vita in mare. La traversata dalla Libia, dove si stima che un migrante ogni trentatré muoia, si conferma la rotta più pericolosa del Mediterraneo. D’altra parte al barcone non c’è quasi nessuna alternativa.
«Gli Stati dell’Unione europea hanno continuato ad attuare politiche poco solidali tra di loro e di sostanziale chiusura delle frontiere esterne, nonostante il 2018 si fosse chiuso con la ratifica da parte di 164 Paesi del Migration Compact - Patto per una migrazione sicura, ordinata e regolare, che l’Italia non ha ratificato».
71 milioni di persone nel 2019 hanno dovuto abbandonare il proprio Paese
Secondo l’Alto commissariato Onu per i rifugiati a livello mondiale circa 71 milioni di persone nel 2019 si sono trovate nella condizione di dover lasciare la propria casa in fuga da guerre, persecuzioni, calamità naturali. Un numero mai così alto nell’età contemporanea. «Una cifra terribile che continua ad aumentare», ha detto nel suo intervento in streaming l’alto Commissario per i rifugiati Filippo Grandi.
In Europa i rifugiati sono oltre 25 milioni, più della metà bambini, molti senza famiglia. I Paesi di provenienza sono quelli che conosciamo da decenni: si scappa dall’Afghanistan, dove la guerra va avanti da oltre quarant’anni, nonostante la comunità internazionale continui a parlare di un Paese pacificato; dallo Yemen, dove si ammazza anche con le armi italiane, e dove dopo cinque anni di guerra 24 milioni di civili hanno bisogno di assistenza e più di 3,6 milioni hanno lasciato le proprie case. Dall’Africa, dove solo dal Sud Sudan, oltre 2 milioni di persone sono state costrette a mettersi in cammino. Ma la crisi migratoria più vasta rimane quella siriana che, entrata nel suo decimo anno di guerra, ha causato la fuga di oltre 5,5 milioni di persone, mentre sono più di 6 milioni gli sfollati interni che vivono in condizioni di estrema povertà.
«È una Via Dolorosa quella che vivono 12 milioni di siriani, si snoda attraverso città, villaggi e mari», ha detto il cardinale Zenari, da 11 anni nunzio apostolico «nella amata e martoriata Siria», intervenendo in streaming per la presentazione del rapporto Astalli. Il nunzio, riprendendo le parole del Papa, ha chiesto che «non scenda una coltre di silenzio sul dramma dei siriani». Nel 2020 il diffondersi della pandemia ha reso il quadro internazionale ancora più drammatico.
«Il 90 per cento dei rifugiati vive in Paesi dove le strutture sanitarie sono fragilissime», ha detto il commissario Grandi.
«La diffusione del virus sarebbe catastrofica. Per questo chiediamo ai tutti i Paesi di includere migranti e rifugiati sia nelle campagne di prevenzione che in quelle per proteggere economicamente gli strati più fragili della popolazione». Le misure di sicurezza messe in atto contro la pandemia, che hanno portato a chiudere porti e frontiere, siano «ragionevoli e soprattutto provvisorie», ha aggiunto l’Alto Commissario. «Non si possono voltare le spalle a chi fugge in cerca di sicurezza. È possibile garantire sia la salute pubblica che proteggere i rifugiati»
La situazione in Italia
Il Centro Astalli, nato nel 1981 per volontà del generale dei Gesuiti padre Pedro Arrupe, con la sua rete territoriale (Roma, Vicenza, Trento, Catania, Palermo, Napoli, Padova) in un anno ha risposto alle necessità di oltre 20.000 migranti forzati, di cui circa 11.000 solo a Roma.
Il bilancio del 2019 evidenzia che «le politiche migratorie, restrittive, di chiusura - se non addirittura discriminatorie - acuiscono precarietà di vita, esclusione e irregolarità, rendendo l’intera società più vulnerabile». Meno protezione per i migranti e rifugiati, dice Astalli, significa meno sicurezza per la società, che rende invisibile una parte della popolazione che sul suo territorio è comunque presente. «La vera emergenza non sono gli arrivi ma la precarietà dei migranti forzati. In tutti i servizi del Centro Astalli si sono fatti sentire gli effetti dell’entrata in vigore dei decreti sicurezza. L’abolizione della protezione umanitaria, il complicarsi delle procedure per l’ottenimento di una residenza e dei diritti che ne derivano, e più in generale il moltiplicarsi di oneri burocratici a tutti i livelli, escludono un numero crescente di migranti forzati dai circuiti dell’accoglienza e dai servizi territoriali», spiega Ripamonti.
Nel 2019, per esempio, è aumentato il numero di accessi al centro d’ascolto di Roma, soprattutto da parte di persone che, con l’abolizione della protezione umanitaria, si sono trovate all’improvviso nella condizione di poter perdere il permesso di soggiorno. Rispetto all’anno scorso gli utenti che si sono rivolti al servizio sprovvisti di documenti validi sono notevolmente aumentati (+79%).
Agli effetti dei decreti sicurezza si sono aggiunte le complicazioni dovute alle disposizioni della Questura, che non riconosce più come residenza valida l’indirizzo fittizio né per i richiedenti asilo né per i titolari di protezione umanitaria, che si ritrovano così sprovvisti di un requisito fondamentale per convertire il permesso di soggiorno in motivi di lavoro. Circa i due terzi delle persone che si sono rivolte all’ambulatorio nel 2019 non risulta iscritta al Servizio sanitario nazionale. Insomma una precarizzazione dell’esistenza, dovuto al fatto di aver «reso l’accoglienza una concessione a tempo e non uno strumento che insieme all’integrazione possa trasformarsi in un progetto di vita», dice Ripamonti.
In Italia il Centro Astalli ha accolto 835 persone nelle sue strutture nel 2019, quasi l’1 per cento del totale degli accolti in tutto il Paese, che al 31 dicembre erano 91.424.
Servizi non solo per i rifugiati
La crisi economica ha costretto comunque a guardare anche agli indigenti di “casa nostra”. E così a Grumo Nevano, in provincia di Napoli, il servizio di mensa e l’ambulatorio medico sono stati ampliati per essere fruibili anche da cittadini italiani in condizioni di indigenza; a Palermo il progetto Generazione intercultura 2.0 ha rafforzato le competenze professionali di un gruppo di giovani residenti in città, a prescindere dalla loro nazionalità; a Trento 13 richiedenti asilo e rifugiati, nell’ambito del progetto Combouniversitaria, hanno vissuto un’esperienza di convivenza con studenti universitari italiani fuori sede. Segnali incoraggianti arrivano infine da giovani e volontariato: nei progetti del Centro Astalli in circa 200 istituti scolastici in 15 città italiane sono stati coinvolti 25.679 studenti. E solo nella sede di Roma, più di 200 persone si sono offerte di fare volontariato: italiani, stranieri, o seconde e terze generazioni di migranti in Italia e anche rifugiati, che desiderano impegnarsi per una società più aperta e più giusta.