Sopra: migranti al confine tra Italia e Svizzera. Nella copertina: i respingimenti delle guardie di confine svizzere (foto © Tipress)
Kiflom, sedicenne eritreo, guarda contrariato lo schermo del cellulare. Aspetta, deluso, notizie: sperava, dopo un viaggio durato nove mesi, di riabbracciare il fratello in Svizzera, che è titolare di asilo politico e lavora facendo le pulizie in un centro congressi vicino a Losanna. Avevano appuntamento per lo scorso sabato. E invece no, le guardie svizzere di frontiera hanno fatto scendere dal treno il ragazzino, scappato dalla dittatura per evitare il servizio militare a vita. In Eritrea diventa obbligatorio a 16 anni: si entra nell’esercito da adolescenti, si finisce a lavorare gratis nelle miniere di Stato e se ne esce vecchi. «Controllavano – dice il ragazzino – solo le persone con la pelle nera». «Non potevo dipingermi di bianco», trova la forza di scherzare. «Ho subito detto – torna serio – che volevo chiedere asilo politico in Svizzera, per poter vivere con mio fratello. Ho provato anche in inglese, ma non mi hanno fatto parlare».
Ecco, è proprio questa l’accusa che oggi, in una conferenza stampa a Chiasso, l'Associazione Studi Giuridici sull’Immigrazione (Asgi) e l'Associazione svizzera Firdaus hanno rivolto alla Confederazione elvetica. È un lungo elenco di norme internazionali (Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti del fanciullo), europee (Codice Frontiere Schengen, Regolamento Dublino III, Regolamento Eurodac) e nazionali, che vengono violate sul confine elvetico. Solo tra luglio e agosto, gli svizzeri hanno effettuato quasi 7.000 riammissioni in Italia (3.518 a luglio, 3.406 ad agosto) di profughi. Un numero in crescita: erano stati 758 a giugno e 208 a maggio.
In base alle informazioni raccolte dalle associazioni, risulta che molti dei respinti avrebbero diritto, una volta presentata domanda di asilo, a essere ricongiunti ai familiari che si trovano in Svizzera o in altri Stati europei, ai sensi del Regolamento Dublino III, o di chiedere la relocation. Proprio come Kiflom. «Quasi tutti – aggiunge Anna Brambilla dell'Asgi - riferiscono di non aver mai ricevuto informazioni riguardo a tali diritti. Sia alle frontiere italiane che a quelle svizzere si riscontra una grave carenza di informazione e orientamento legale, oltre che di interpreti delle lingue maggiormente diffuse».
Almeno 300 sono addirittura stati trasferiti direttamente dal posto di polizia di frontiera di Chiasso all'hotspot di Taranto. Gli elvetici affermano di respingere in Italia solo coloro che non intendono chiedere asilo in Svizzera. Al contrario, molti dei migranti hanno raccontato di aver tentato di presentare domanda di protezione internazionale in Svizzera, sia oralmente che consegnando una dichiarazione scritta, ma di non aver potuto formalizzare la richiesta. Anche Amnesty International punta il dito contro la Svizzera: «Non rispetta il diritto dei minorenni». Infatti Kiflom è uno dei tanti: negli ultimi due mesi, sono almeno 600 i ragazzini soli, cioè coloro che dovrebbero invece godere di particolari tutele, che sono stati costretti a scendere dai treni e rimandati oltreconfine.
Molti, spesso in attesa di ritentare, sostano per qualche giorno nella Parrocchia comasca di Rebbio, dove don Giusto Della Valle accoglie gratuitamente minorenni non accompagnati, donne incinte e famiglie con bambini piccoli. Dal 14 luglio al 23 agosto, la polizia svizzera ha affidato alla Caritas di Como, che poi li ha collocati a Rebbio, 454 minori, con verbali su cui è scritto: «Consegnato dalla Polizia Svizzera con procedura di riammissione semplificata, siccome sorpreso ad entrare clandestinamente in Svizzera». Il più piccolo ha dodici anni. Alcuni sono stati respinti, tecnicamente “riammessi”, più di una volta, in alcuni casi addirittura sei. Tra di loro, il 13% sono femmine, quasi i tre quarti sono eritrei, mentre gli altri provengono dalla Somalia, dall’Etiopia, dalla Guinea Conakry e dal Gambia.
Quando è stato respinto, Kiflom invece non si è fermato a Como, ma è tornato a Milano, centro del flusso dal Sud al Nord Europa. Ora è ospite al Memoriale della Shoah alla Stazione Centrale, dove la Comunità di Sant’Egidio ha allestito un centro – tutto autofinanziato, non ci sono costi per la collettività – da cinquanta posti a notte nei sotterranei da cui, fra il 1944 e il 1945, partivano i convogli carichi di ebrei diretti ai lager. Due vagoni stanno qui, a memoria di quelli che venivano stipati e sollevati fino alla quota del binario 21, per poi partire per i campi. Il contesto storico era ben diverso, era il momento in cui in Europa, e in Italia, si teorizzava e si metteva in pratica il Male assoluto della Shoah. Ma anche quella era una vicenda di confini, respingimenti ed egoismi. Tra i pochi sopravvissuti, Liliana Segre, partita per Auschwitz dal binario 21 il 30 gennaio 1944. L’anno prima, la sua famiglia pagò un trafficante per passare la frontiera con la Svizzera, ma fu respinta da un poliziotto elvetico che sentenziò: «Non potete entrare… la barca è piena». «Mi buttai ai suoi piedi – ricorda spesso l’allora tredicenne – supplicandolo tra i singhiozzi di non rimandarci in Italia».
Non ci fu nulla da fare, furono portati al carcere di San Vittore e poi ad Auschwitz. Fu l’unica a tornare della sua famiglia. Ma anche nei decenni dopo la Seconda guerra mondiale, quella frontiera rimase calda. Sulla strada che da Marchirolo scende verso il valico di Ponte Tresa, si poteva assistere a scene come questa: un’Alfa rosso bordò si arresta ai margini del bosco, l’uomo al volante scende guardingo e apre il cofano. La moglie spinge una ragazzina di dodici anni che scivola nel bagagliaio con la paura scritta in faccia. I due adulti risalgono in auto, con volti impietriti che ostentano normalità, e passano il controllo. La bambina non era un’eritrea del 2016 in fuga dalla dittatura, ma Catia Porri di Soffiano (FI), che oggi ha 65 anni e lavora come fotografa in Svizzera. Nel 1962, dopo aver passato la frontiera, per lei iniziò a Zurigo «una stagione nell’armadio».
Nascosta in una casa perché immigrata senza documenti. Coi genitori che, terrorizzati dalle denunce dei vicini, le ripetevano sempre a bassa voce: «Zitta! Non ti devi far sentire! Psst!». Non ridere, non giocare, non piangere. «Abitavamo – racconta Catia – in una stanza con cucina sotto il tetto. I vecchi pavimenti di legno scricchiolavano a ogni minimo movimento. Non osavo muovermi e passavo le giornate sdraiata sul letto a leggere e guardare per aria con la speranza che il tempo passasse in fretta. Dalla paura che avevo, non usavo nemmeno le stoviglie per mangiare, per non fare rumore». Catia è una delle migliaia di bambine e bambini italiani che per decenni hanno vissuto nascosti in Svizzera con la paura di essere espulsi, come succedeva a chi veniva scoperto dalla polizia. Difficile dirne il numero esatto, ma si stima che i minori italiani nascosti fossero almeno 15 mila negli anni Settanta e ancora molte centinaia (alcuni studiosi dicono 10mila) negli anni Novanta.
Le loro storie sono raccontate in “Bambini proibiti” di Marina Frigerio. Fino al 1996, infatti, la legge elvetica non permetteva agli stranieri che avevano un permesso di soggiorno stagionale di portare con sé i loro piccoli. Come i genitori di Catia: avevano un lavoro stagionale, ma non l’autorizzazione a tenere con sé la figlia. Anche allora, preti e suore del Comasco aprirono orfanotrofi e istituti per accogliere i bambini che, scoperti, venivano dagli svizzeri separati dai loro genitori e rimandati oltreconfine. Capitava infatti che la denuncia di qualche vicino zelante portasse all’espulsione del minore. Alle volte il genitore, per non perdere il lavoro, non riusciva ad accompagnare il figlio in Italia e lo affidava alle autorità al di là della frontiera: è per esempio la storia di molti “orfani di frontiera” cresciuti alla Casa del fanciullo di Domodossola.