Di suor Maria Ausilia Consiglio
Sono appena rientrata dal molo Favarolo dove da quando, tre anni fa, sono arrivata a Lampedusa trascorro gran parte delle mie giornate. Con gli operatori della Croce Rossa, da giugno sull’isola, e con altri volontari abbiamo cercato di dare una prima assistenza a 274 persone partite dalla Tunisia. Prima ero stata al poliambulatorio per incontrare i 14 superstiti dell’ultimo naufragio, avvenuto il 12 luglio: nigeriani e profughi della Sierra Leone, attaccati a una flebo perché disidratati. Dicono che ci sono cinque dispersi, tra loro anche un neonato. Anche oggi al molo ho cercato di far sorridere i bambini con le bolle di sapone che porto sempre con me insieme al mio naso da clown.
In 24 ore sono sbarcate sull’isola oltre 1.600 persone, già trasferite nell’hotspot di Contrada Imbriacola in grado di ospitarne, però, non più di 400. Continuiamo a chiudere gli occhi di fronte al dramma altrui, come ripete papa Francesco dal 10 luglio 2013, quando, qui sull’isola, denunciò la «globalizzazione dell’indifferenza ». Al molo continuo la mia missione: quando cambio un pannolino a un neonato o lo aiuto ad asciugarsi il naso incontro Cristo. Un incontro che spesso è traumatico come quando, quest’inverno, abbiamo visto arrivare i corpi di neonati morti di freddo o quando provo a stabilire un contatto, basta una semplice carezza, con le giovani mamme, ragazzine, che piangono la perdita dei loro figli. Al cimitero di Lampedusa non c’è una cella frigo per i morti. E così mi faccio aprire la porta di quella piccola stanza mortuaria e accendo dei chicchi di incenso perché quell’odore possa tramutarsi in preghiera; lo assicura il Salmo 141: «Come incenso salga a te la mia preghiera».
A Lampedusa missione significa non fermarsi mai, pregare e lavorare come ci ricorda san Benedetto, il cui stile di vita può all’apparenza sembrare opposto a quello salesiano a cui appartengo, ma la radice è uguale: salvarsi e salvare. Continuo a lanciare appelli. Non è possibile che una ragazza di 26 anni muoia all’interno dell’hotspot per una crisi d’asma come è accaduto lo scorso 18 febbraio. Non è accettabile che quei corpi in attesa al cimitero di Cala Pisana aspettino mesi prima di essere trasferiti sulla terraferma e avere così una degna sepoltura. Non è accettabile vedere un’isola di 6 mila abitanti costantemente presidiata dalle forze dell’ordine con duemila tra militari, poliziotti e finanzieri. Qui servono braccia e cuore. Tra qualche mese finirà il mio “mandato” all’interno del progetto triennale Fare ponte tra i lampedusani e gli immigrati dell’Unione internazionale delle superiore generali (Uisg). Dovrò lasciare l’isola. Alcuni sogni, come quello di vedere nascere un oratorio sull’isola non si sono ancora realizzati. Quando la sera, sfinita, vado a dormire, guardo il Crocifisso e don Bosco: entrambi mi spronano a sognare ancora.