Nel 2011 i lavoratori migranti hanno rimandato alle famiglie nel Paese d'origine 372 miliardi di dollari: il 12% in più dell'anno precedente, secondo i dati forniti dalla Banca mondiale. Nello stesso arco di tempo, le rimesse partite dall'Italia sono tornate ad aumentare
toccando quota 7,4 miliardi di euro.
Due premesse sono necessarie: da un lato
stiamo parlando di un capitale superiore agli investimenti allo sviluppo
pubblico che i Paesi industrializzati operano nei confronti dei Paesi in via di
sviluppo, dall'altro consente di alzare significativamente la percentuale di
famiglie che riescono a uscire dalla fascia di povertà raggiungendo livelli di
benessere relativo altrimenti impensabili. È facile intuire che l'impatto delle
rimesse in termini di welfare sociale sia davvero straordinario soprattutto per
la loro natura personale e svincolata da logiche finanziarie nazionali e
sovranazionali.
A livello internazionale oggi ci si chiede come incentivare e
rendere più proficua l'efficacia delle rimesse verso i Paesi d'origine:
interrogativo la cui risposta non può ovviamente prescindere
dall'individuazione e dalla scelta dei
migliori interventi in termini politici
e normativi.
Favorire il fenomeno delle rimesse, infatti, può significare, ad esempio, abbassare le tassazioni sulle transazioni economiche o sostenere la bancarizzazione e le transazioni tramite circuiti bancari per evitare percorsi "informali" che rischiano di sconfinare nell'illegalità.
Altro discorso è ragionare sulla gestione della rimessa, tanto da parte del migrante quanto da parte di chi la riceve: una deviazione che spesso si instaura riguarda l'incremento di processi di consumo da parte delle famiglie recipienti che non si rivelano sempre tesi al soddisfacimento di bisogni essenziali o al perseguimento di un'autonomia economica tramite piccole forme di investimento. Anzi. Al contrario, le rimesse possono generare atteggiamenti che sfumano verso forme di consumismo accessorio: la conseguenza diretta è soltanto un miglioramento dello status sociale della famiglia all'interno della comunità in cui vive e non una risposta concreta alle esigenze familiari.
Si tratta dunque di creare un'
educazione finanziaria al risparmio: «Chi riceve le rimesse - spiega
Alessandro Baldo, responsabile del programa internazionale "Migrazioni per lo sviluppo" di Soleterre Onlus - deve abituarsi a considerarle non come l'unica fonte di sostentamento ma come una forma di investimento per aumentare le possibilità di autosostenibilità della famiglia».
Ma cosa lega il migrante alla
rimessa? «In primis, l'"obbligo" psicologico ha innanzitutto una
radice assai concreta: consiste infatti nella soluzione di un debito, interessi salati inclusi, contratto nel Paese d'origine al fine di poter partire. Pur sapendo di
generalizzare, va detto che ci sono notevoli differenze sulla base dei
percorsi e delle modalità delle migrazioni». In altre parole, sono diversi gli
atteggiamenti dei migranti a seconda della provenienza: l'approccio di una
donna matura ucraina non può essere lo stesso di un giovane sudamericano o di
un uomo adulto marocchino.
«A questo si aggiunge, ovviamente, l'aspetto emotivo
ed emozionale: il migrante percepisce se stesso come responsabile dei destini
della famiglia di provenienza e, dunque, oggetto di grosse aspettative.
Soprattutto tra le donne e le mamme migranti è molto forte il senso di colpa
per aver abbandonato i figli, il peso dell'assenza. Ma non solo. «Il debito
morale può essere accentuato dai "tutori" dei figli nel Paese
d'origine che, in qualche modo, si abituano a vedere il familiare migrante come
un generatore di reddito, creando un circolo vizioso di "dipendenza"
che è alla base del ricatto come emerge da alcune storie di ricongiungimento
familiare che abbiamo seguito». I tutori rappresentano in alcuni casi il vero
grande ostacolo al ricongiungimento perché si trovano a perdere la principale
se non l'unica fonte di ricavo per la famiglia: senza i "protetti" si
teme che le rimesse diminuiscano o finiscano del tutto.
La storicità del flusso
migratorio incide sulle caratteristiche della gestione delle rimesse: tra una
terza e una prima generazione migrante c'è un abisso di differenze. «Porto
l'esempio della migrazione ucraina: essendo alla prima vera "ondata"
si sente ancora forte la necessità di risparmiare per poter mandare alla
famiglia d'origine quanti più soldi possibile. Si tratta per lo più di donne
davvero pronte a sacrificare molto del loro benessere in Italia in nome della
famiglia: sono quelle che accettano con maggiore facilità e addirittura cercano
lavori in co-residenza, i più faticosi fisicamente e stressanti
psicologicamente, perché la loro ambizione rimane il ricongiungimento in
Ucraina.
Differente il caso della migrazione marocchina, ormai radicata e
integrata nel tessuto sociale italiano: le famiglie si sono per lo più
ricongiunte e le rimesse sono più un aiuto volontario a qualche parente ancora
lontano e non una necessità a tutti i costi».
Diverso ancora il caso di El
Salvador: i soggetti migranti sono spesso molto giovani, eppure già con una
famiglia loro, e cercano una dimensione che consenta il ricongiungimento a
figli e mariti in Italia. Cioè, i sudamericani in generale hanno la tendenza a
investire anche in Italia parte dei risparmi.
È evidente che ci sono
anche ragioni
puramente geografiche: per una migrante ucraina è indubbiamente più facile
anche solo pensare ritorni periodici nel Paese d'origine così da tenere vivo il
legame affettivo. C'è anche un aspetto anagrafico da non sottovalutare: le
migranti ucraine sono prevalentemente donne over 40 con figli che cercano di
mantenere negli studi anche all'università e talvolta hanno già nipoti. La loro
prospettiva è sicuramente diversa da quella delle donne latinoamericane, molto
giovani, che lasciano figli piccoli nel Paese d'origine.
Soleterre ha già provato in
passato a lavorare sul tema delle rimesse soprattutto nell'accezione più usuale
a livello internazionale: canalizzare almeno parte dei risparmi inviati verso
forme di investimento produttivo che si concretizzano in genere in
piccolo-medie attività imprenditoriali in una logica di autosostenibilità che
renda più "libero" il migrante anche nel caso decidesse di tornare
nel Paese d'origine.
In altri casi si è scelto di investire in attività
imprenditoriali a livello transnazionale «mantenendo una
"circolarità" del migrante in base alla quale il soggetto interessato
non decide di vivere soltanto in Italia o, viceversa, soltanto nel Paese
d'origine, ma intende mantenere un appoggio in entrambi i Paesi». Si tratta però
di una strada molto difficile da percorrere perché il successo di un'attività
non può essere matematicamente standardizzato: ci sono troppe variabili per la
replicabilità con i medesimi esiti.
«Noi di Soleterre abbiamo sempre scelto di
affrontare le "questioni" migratorie in un'ottica familiare perché
dietro una migrazione non c'è mai solo una scelta individuale ma il
coinvolgimento di interi nuclei, spesso anche allargati: questo nostro
approccio, questa nostra esperienza abbiamo provato a trasferirla anche nel
campo delle rimesse. Da qui l'obiettivo di lavorare su quelle che in gergo
chiamiamo
"financial literacy", cioè l'alfabetizzazione finanziaria,
e
"family budgeting", cioè la capacità di chi manda e di chi le
riceve le rimesse a costruire e rendere "operativi" dei budget
familiari improntati alla sostenibilità». In sintesi i progetti di Soleterre
per quello che concerne le rimesse sono volti a creare maggiore consapevolezza,
educando a gestire i soldi nel rispetto delle priorità del fabbisogno
familiare, programmando con piani di accantonamento la possibilità di avviare
attività imprenditoriali o investire nell'istruzione, anche universitaria, dei
figli.