Il resto del mondo avrebbe raccontato Rocco Chinnici partendo dalla sua scrivania; dall’Ufficio istruzione di Palermo; dall’intuizione di indagare sulle transazioni finanziarie; dall’estro innovatore di creare il “pool”: un gruppo di magistrati pronti a lavorare in sinergia per scambiarsi le informazioni, molto prima che tutto questo, grazie all’impegno di Giovanni Falcone, diventasse sistema, con le direzioni distrettuali antimafia. Magari anche dall’esplosione che l’ha spazzato via il 29 luglio del 1983, sotto casa, uccidendo con lui Mario Trapassi e Salvatore Bartolotta, carabinieri della sua scorta, e Stefano Li Sacchi, il portiere del palazzo.
Solo sua figlia, Caterina Chinnici, avrebbe potuto raccontarlo a partire da un bacio sulla fronte. Non che manchi il resto: nel racconto c’è tutto il lato pubblico di Rocco Chinnici. Ma c’è di più: lo sguardo di Caterina, la primogenita, magistrato a sua volta, oggi parlamentare europea. Le abbiamo parlato in occasione dell’anteprima del film per la Tv, andato in onda il 23 gennaio scorso, e tratto dal suo libro È così lieve il tuo bacio sulla fronte uscito due anni fa.
Onorevole Chinnici che ha sensazione le ha dato rivedere tutto in un film?
“È vero che c’è finzione cinematografica, ma è stata un’emozione enorme vedere dall’esterno, da spettatore la propria storia. Ho impiegato a riprendermi più di quanto immaginassi. I tratti fisici sono diversi ma Sergio Castellitto (protagonista che ha interpretato Rocco Chinnici, ndr.) e agli altri attori sono stati bravissimi a rendere espressioni e sentimenti”.
Il padre visto dalla figlia e insieme il magistrato visto dal magistrato: si può districare?
"Per me è impossibile: il padre, il magistrato, l’uomo sono una persona unica, Rocco Chinnici, che portava nel lavoro il proprio modo di essere. Che padre è stato? Un papà affettuoso e presente ma non invadente. Noi tre potevamo sempre contare su di lui anche quando il lavoro lo teneva fuori di casa tutto il giorno. Era disponibile a consigliarci e confortarci, sapeva anche dire dei no che magari da ragazzi pesano ma si capiscono dopo. Con me ha avuto gioco facile: non sono mai stata brava a ribellarmi. Ma credo che la cosa più difficile e bella da parte dei nostri genitori sia stata la capacità di farci sentire ciascuno amato di un amore unico ed esclusivo”.
Che forma ha preso la mafia nella vita della vostra famiglia?
“Non se abbia preso una forma, ma a poco a poco è diventata una presenza che cercavamo di esorcizzare ma che, da un certo momento in poi, non abbiamo più potuto mettere da parte: la serenità, da spontanea che era, è diventata autoimposta. La consapevolezza del rischio si è fatta concretissima dopo l’assassinio del generale Dalla Chiesa: morivano tutti quelli che lavoravano su quel fronte con quell’approccio. Di lì in poi papà uscì di casa solo per andare al lavoro”.
Si chiede mai se ne sia valsa la pena?
“Infinite volte. Mi rispondo che se mio padre, Falcone, Borsellino, tutte persone cui ho voluto bene, hanno creduto in quei valori, in quel lavoro, fino ad accettare il rischio della vita, doveva valerne la pena, anche perché hanno tracciato un percorso senza ritorno: un metodo che ora stiamo provando a sviluppare anche a livello di legislazione europea. Questo non cambia il nostro dolore devastante, ma ci fa dire che non è stato senza senso”.
Ha vissuto da figlia la paura per suo padre, da madre le minacce su di sé: è vero che si teme più per gli altri?
“Indubbiamente. Quando fai una scelta per te stesso sei pronto ad accettarne il rischio, quando il rischio incombe sulle persone che ami la responsabilità è molto maggiore e ci si mette in discussione molto di più”.
Nel libro lei parla anche di perdono: si può pensarci di fronte a una violenza come quella che ha vissuto la vostra famiglia? “
Non sùbito, serve un grande lavoro su sé stessi e non è mai un fatto acquisito: occorre ripercorrere la devastazione vissuta, accettare prima la rabbia, poi il dolore e, dopo, se si riesce, trasformarlo in forza. La fede aiuta, ma il perdono è una decisione che si rinnova ogni giorno e non è per sempre. Per me superare la rabbia è stato indispensabile per continuare a lavorare con serenità di giudizio come magistrato e per ritrovare un equilibrio familiare come persona, moglie e madre. Ma il dolore resta”.
È diventato più pesante il suo cognome da quel 29 luglio?
“Quando sei giovane ti mette a disagio che ti presentino come la figlia di… Sai che ti confrontano come magistrato, non è facile. Quel giorno ha aumentato molto la mia responsabilità, ma mi ha dato anche la fierezza: sono Caterina Chinnici, figlia di Rocco. È diventato parte di me”.