Mira Rai, a soli 26 anni, è la nepalese più famosa al mondo. E lo è diventata… di corsa. “Dove sono nata o si cammina o si muore”, dice. E a Mira camminare, anzi, correre è sempre piaciuto. “Mi dà gioia e non sento la fatica”, aggiunge, spalancando un sorriso solare, per farci capire che se è arrivata tanto in alto, sta nelle cose, è buona sorte, e non c’è chissà che merito o talento.
Ma non è così. Non si diventa famosi per caso e ancor meno per caso si diventa il modello di riscatto per le ragazze che vivono in un Paese dove la disuguaglianza tra i sessi è ancora marcata; per caso non si raggiungono i traguardi sportivi che lei ha raggiunto in questi anni. Tanto più se si nasce in uno sperduto villaggio di montagna del nord-est del Nepal, con un solo sentiero che non prevede aspirazioni d’emancipazione, ma solo il duro lavoro domestico.
La storia di Mira Rai, 26 anni, bambina-soldato, che si scopre atleta da record nel trail running, le massacranti corse di decine di chilometri con dislivelli di migliaia di metri, ha commosso il mondo. La sua è davvero una vita da romanzo. Un documentario su di lei è già stato realizzato dal regista Lloyd Belcher e presentato all’ultimo “Trento Film Festival”, dove l’abbiamo incontrata, fresca vincitrice del prestigioso premio “Adventure of the Year” attribuitole da National Geographic.
“figlia di braccianti, sono nata a Bhojpur – esordisce – che non è neanche un villaggio, ma tre case, tre, arrampicate sui monti, a due giorni di cammino dalla capitale Katmandu”. Una zona poverissima e isolata dove Mira, seconda di cinque fratelli, aiutava la madre a raccogliere l’acqua e il sale, a portare al pascolo gli animali e procurarsi legna da ardere ”.
Poi, all’età di 14 anni, hai deciso di andartene da casa. Perché?
“Volevo dare una mano alla mia famiglia. Guadagnare qualcosa. Al villaggio, a volte, non si metteva assieme pranzo e cena. Così, senza dir nulla ai miei genitori, andai ad arruolarmi nell’esercito ribelle maoista”.
Cosa ricordi di quell’esperienza?
“Fu un’avventura. Per i primi sette-otto mesi non potei dare segni di vita, così i miei genitori pensarono fossi morta. Dovetti mandar loro una lettera con una foto e dei capelli, come prova che ero in vita. Non ero trattata da bambina, ma come un adulto: preparavo il cibo e costruivo i ripari nella giungla”.
Mai usato le armi?
“Ci hanno addestrato a sparare, ma per fortuna non ho mai usato armi, né combattuto. Piuttosto, lì ho imparato il karate (diventando “cintura marrone” in soli due anni, ndr)”.
Poi l’esercito nepalese ha firmato l’armistizio coi ribelli. Con la fine della guerra che cosa ti è accaduto?
“Ero troppo giovane per essere arruolata nell’esercito regolare, così sono andata a Katmandu in cerca di un lavoro. Tornavo al mio villaggio solo per le vacanze e le feste. Non me la passavo bene”.
Ma un giorno qualcuno s’accorge di una ragazza che corre per strada superando le bici e aggredisce le salite come pochi. E’ l’incontro che ti cambia la vita.
“Già. Era marzo del 2014. A Katmandu correvo sempre, per tenermi in forma. Un giorno s’accorsero di me due guardie del parco, anche loro atleti. E andai a correre con loro. Uno dei due, prima di salutarmi, mi propose di iscrivermi a una gara che si teneva l’indomani. Manco sapevo cosa fosse una corsa di trail running, né tantomeno possedevo l’equipaggiamento adeguato”.
E che hai fatto?
“Ignara di tutto, mi presentai alla partenza. Era un “trail” di 50 km. Andai fortissimo, nonostante pioggia e grandine, e mi notarono gli organizzatori. Quando arrivai a casa, a notte fonda, chi mi ospitava tirò un sospiro di sollievo: pensava che mi avessero rapita e aveva già allertato la polizia”.
Da lì, invece, iniziò la tua folgorante carriera di trail runner. Al mattino studiavi inglese e al pomeriggio ti allenavi. Quante gare hai vinto?
“Non lo ricordo più, forse 15. La prima vinta in Europa fu proprio qui da voi in Trentino, la “Sellaronda trail Running”, 58 chilometri e 3400 metri di dislivello. Ho pure abbassato di 30 minuti il precedente record femminile. Fu emozionante il vostro incitamento e il tifo per me”.
Quando hai capito di essere diventata famosa?
“Nel 2015, quando ho vinto una gara di 80 km in Francia e mi sono ritrovata nei tg nepalesi. E poi contando i quasi 40 mila giovani che mi seguono su Facebook. Incredibile, mi dissi”.
Da piccola cosa volevi fare?
“Sapevo cosa non volevo: restare al villaggio a fare i lavori di casa, come tutte le donne che vedevo. I miei sogni erano diventati più alti dei monti di Bhojpur”.
E ti consideravano una ragazza un po’ strana per questa tua voglia di evadere?
“Un po’ sì. Non sono mai riuscita a stare ferma in un posto. Mia madre, a volte, quando usciva di casa, mi legava da qualche parte. Ma al suo ritorno, mi ero regolarmente liberata. Ora vedo i miei genitori 3-4 volte l’anno, perché vivo a Katmandu. A loro basta. Sono orgogliosi di me”.
Sei diventata un simbolo per le donne nepalesi. Che effetto ti fa?
“Mi lusinga tantissimo e mi riempie di gioia. Forse ho dato un po’ di speranza e d’autostima a qualche ragazza del mio Paese. ‘Se ce l’ha fatta lei’, possono pensare, ‘posso farcela anch’io’. Vorrei, in questo modo, che altre donne avessero le mie opportunità e voglio impegnarmi per questo”.