Vargem Grande è una favela, alla periferia sud di San Paolo, a due ore di auto (per via del traffico) dal centro. Milioni di anni fa vi cadde un asteroide che scavò una grande depressione. In quella conca oggi vivono circa 35mila persone. C’è una sola strada asfaltata, le altre hanno buche di un metro. Non tutte le abitazioni sono agganciate al sistema idrico e a quello fognario; lo stesso vale per la corrente. Non proprio una destinazione da Club Méditerranée, insomma. Eppure è anche lì che, per quasi tre anni, Chiara Falco e il marito Andrea Guerra, insieme con la figlia Matilde, hanno provato a vivere la missione in un modo speciale: “formato famiglia”.
Quando sono partiti da Cinisello Balsamo, alle porte di Milano nella primavera del 2019, Chiara, ricercatrice di Economia politica presso l’Università di Modena, aveva 32 anni, due meno del marito Andrea, allora giornalista free lance (oggi redattore presso Hearst Digital). Sposati dal 2013, hanno due figli: Samuele, nato in Brasile, e Matilde che, al momento della partenza, aveva un anno e mezzo.
Laici missionari del Pime, Chiara e Andrea hanno coltivato la passione per l’oltre fin da giovani: «è una scintilla - spiegano - che ci hanno messo nel cuore vari preti dell’oratorio». Tra questi, don Davide Milanesi che nel 2004 accompagnò un gruppo di giovani nell’Amazzonia brasiliana. «Dobbiamo molto anche all’ALP, ai padri del Pime e ad altri laici, che ci hanno seguito, aiutandoci a capire che era arrivato il momento giusto per partire».
Dopo un cammino di preparazione iniziato nel 2015, una volta approdati in Brasile i due hanno prestato servizio in parte per l’Istituto (occupandosi, ad esempio, delle adozioni a distanza), in parte per l’Ong “Conosco”, un’associazione brasiliana che ha alle spalle vent’anni di vita e gestisce dieci centri diurni per ragazzi e adolescenti nelle favelas di São Paulo. Tornati in patria 10 mesi fa, hanno raccolto impressioni e riflessioni di un’esperienza intensa, che ha lasciato un segno profondo nella loro vita, in un agile testo: Come aquiloni sulle favelas (Emi).
Il brano che dà il titolo al libro si fa leggere tutto d’un fiato. «Se credete che in Brasile lo sport nazionale sia il calcio, vi sbagliate di grosso. Pipa. Ovvero, aquilone. Questo è il vero sport nazionale, quello che accomuna tutti, grandi e piccini, ricchi e poveri, uomini e donne. Un aquilone in favela è ha qualcosa di poetico. Vola alto, cerca di sfuggire a quello che c’è là sotto. È il filo con cui i più piccoli sognano e i più grandi tornano bambini e si dimenticano dei problemi. Tutti cercano in cielo lo spazio che gli manca sulla terra. È l’immagine di quel tentativo di fuga, di evasione, che resta nell’aria per qualche minuto e poi, purtroppo, quando il vento cessa svanisce. Gli aquiloni sulle favelas di San Paolo sono l’immagine della vita. Anche noi, appesi a questi fili, in questa quarantena lunga e difficile, ci lasciamo trasportare un po’ in alto, un po’ oltre. E sogniamo».
Proprio all’inizio del libro che la coppia spiega le ragioni della scelta missionaria: «Perché siamo venuti in Brasile? A chi non crede si potrebbe rispondere con lo slogan di un noto film Un sogno per domani: «Passiamo il favore». A chi crede in Dio, invece, spieghiamo invece che abbiamo deciso di affidare a lui tre anni della nostra vita, di metterli nelle sue mani anche se ci chiamava dall’altra parte del mondo, di provare a donare un po’ di quell’Amore che abbiamo sperimentato e che non riusciamo a tenere solo per noi».
La permanenza in Brasile della coppia italiana si è fatalmente incrociata con l’esperienza del Covid. Il che ha sconvolto talune previsioni della vigilia, ma non ha impedito a Chiara, Andrea e Matilde di vivere una missione “speciale”. «La pandemia ci ha obbligato a ridurre le possibilità di relazione con le persone e, tuttavia, questo ci ha fatto capire che la missione non è anzitutto un fare o un andare, ma un modo di essere, uno stile di presenza e condivisione, anche sembra non aver nulla da condividere e senza poter “combinare” grandi cose. In questo ci sono stati d’esempio alcuni padri del Pime».
Uno, in particolare, Dowluri Suresh Kumar, per tutti padre Bosco. «Indiano di origine, padre Bosco, in una periferia complicata di San Paolo e pur in una situazione difficile come quella della pandemia, è rimasto là dov’era stato mandato, mentre molti preti diocesani locali sono tornati a casa. “Lui è qui e per noi è importante che resti”, dicevano commossi i suoi parrocchiani. E questo ci ha provocato ad adottare quel medesimo stile, privilegiando lo stare».
Dalle pagine del libro emerge la peculiarità dello stile di testimonianza missionaria “formato famiglia”. «La famiglia vive molto di più dentro alcune relazioni della società e della comunità rispetto al prete. Prima di partire c’era stato detto proprio questo: il bello di una famiglia in missione è che raggiunge alcune situazioni in cui il prete non arriva. Noi abbiamo sperimentato che è proprio così. Inoltre, sebbene non per nostro merito, siamo diventati anche un po’ una stampella, una spalla su cui piangere per altri. Qualcuno in Alp ci aveva avvertito che sarebbe accaduto: “Magari, in alcuni momenti, aiuterete più i padri del Pime della stessa gente”. Ebbene, talvolta è accaduto proprio questo».
Tre anni in missione sono relativamente pochi e tuttavia, come in questo caso, carichi di emozioni e relazioni. «Abbiamo portato a casa più di quanto abbiamo dato: sembra banale, ma è la verità. La cosa più preziosa – sottolineano i due- è lo sguardo con cui guardiamo il mondo. Pur piccola, anche Matilde ha fatto l’esperienza di essere lei la diversa, “l’altra” che però è stata accolta: ci auguriamo che faccia tesoro di questa esperienza».