Dalla scaletta dell’aereo,
Mogadiscio non sembra
Mogadiscio. La luce abbacinante,
l’aria calda e secca
mitigata dalla brezza
marina, l’Oceano Indiano
che si spalanca a sud, il
solito rumore dei velivoli.
Non pare un aeroporto sotto assedio.
Tanto più ora che i cinesi stanno
ultimando un nuovo ultramoderno
edicio: un grosso cubo rivestito di
vetri oscurati. Ma 100 metri più in là si
intravede un alto muro, dopo il quale
ce n’è un secondo, inframezzato da paraventi
fatti di sassi trattenuti da reti
metalliche.
Servono per limitare i danni
delle autobombe. Oltre i muri Mogadiscio
è Mogadiscio, con un’innita
serie di edici bucherellati dai proiettili
o squarciati da vecchie e nuove
deagrazioni. E donne dai veli sgargianti,
bambini in divisa scolastica
bianco-azzurra, ragazzine dal velo
blu che incornicia il volto, carretti e
mercatini, auto dei “potenti” che girano
con scorte armate pieni di soldati.
Tutto sembra scorrere nella calma
apparente, tra il biancheggiare delle
case, le strade polverose e devastate
(tranne una, appena rifatta, che ricorda
l’epoca coloniale), l’azzurro del
mare e il sole a picco. Rimarremo nella
capitale somala solo tre giorni, oltre
diventeremmo un bersaglio. Sappiamo
già, per le statistiche del terrore
di Mogadiscio, che prima di ripartire
almeno un’altra bomba o kamikaze
saranno esplosi. «Benvenuti», ci accolgono Pietro
Fiore e Gianpiera Mancusi, «la macchina
e la scorta ci attendono». Sono i
due cooperanti del Cesvi che operano
nella capitale. Seguono i progetti di protezione dell’infanzia.
Echo, l’Ufficio per gli aiuti umanitari dell’Unione
europea, finanzia l’intervento della
Ong bergamasca: se la città è sotto
assedio da parte degli Shabab (gli
estremisti islamici “cugini” dell’Isis e
di Boko Haram), i bambini di Mogadiscio
e dintorni ne vivono un secondo:
quello degli abusi, che si presentano
sotto forma di violenze, stupri, lavoro
minorile, privazione del diritto di andare
a scuola, reclutamento (forzato?)
da parte degli Shabab, in nome di
un dio di violenza e sopraffazione che
la Somalia, Paese di antiche tradizioni
islamiche, non ha mai conosciuto, e
che ora costringe anche le bambine di
5 anni a girare velate.
In città alloggiamo nell’unico albergo bergo
considerato sicuro: è a 200 metri
dall’aeroporto, ma ci si va lungo un
camminamento protetto, con il fuoristrada
dai vetri oscurati e la scorta.
«Noi occidentali dobbiamo stare
sotto protezione costante», spiega
Pietro. «Ed è difficile lavorare così. Ma
i bambini di protezione non ne hanno
alcuna».
E in Somalia, il Paese del
“fai da te” dove le istituzioni sono un
optional, significa che capita loro di
tutto. Anche di essere comprati dagli
Shabab per forgiare nuovi terroristi.
Perciò l’intervento del Cesvi consiste
nell’andare a scovare in città e nei
campi sfollati quelli che hanno subìto
abusi, attraverso le operatrici locali, e
di cercare di restituire loro un’infanzia
normale, per quanto è possibile
in una città che convive con la guerra
dal 1991.
Secondo i dati, più di 38 mila bambini
nel Paese sono ad alto rischio di
morte per fame, 203 mila sono malnutriti.
La fame, includendo anche gli
adulti, colpisce oltre 730 mila persone.
«In una situazione così disperata l’accesso
all’educazione è scarsissimo»,
dice Fiore. «I tassi di scolarizzazione
sono tra i più bassi al mondo: 18% dei
ragazzi e 15% delle ragazze».
Il Cesvi,
grazie a Echo, sta lavorando in città e in
diverse altre regioni della Somalia, per
assicurare ai più vulnerabili il ritorno
a scuola, ma anche i libri, i quaderni,
la divisa. «Lo stiamo facendo attraverso
i quattro centri dove accogliamo,
proteggiamo e curiamo i bambini più
esposti», spiegano Pietro e Gianpiera,
mentre ci avviciniamo a uno dei centri collocato all’interno di un
campo profughi, in periferia. «Avrete
mezz’ora, 40 minuti al massimo», ci
avvisa il responsabile della sicurezza.
Mezz’ora per visitare un’irreale
oasi di pace, dove finalmente si sentono
i bambini fare i bambini, schiamazzare
e giocare, e le mamme con il
pancione fanno i controlli medici.
Un
piccolo spazio circondato dalla sterminata
serie di tende tirate su alla
buona, alla maniera somala, con teli di
stoffa e di plastica, abitate da famiglie
fuggite dalla guerra anche da due o tre
anni, ammassate in centinaia di migliaia
tutto intorno a Mogadiscio.
«Da grande? Voglio fare l’insegnante
», racconta Shamso. Un velo
rosso le incornicia il volto e mentre
parla sbircia il gruppetto di amiche
ansiosa di tornare a giocare. Shamso
ha 9 anni, e a scuola non c’è mai andata.
Vi metterà piede fra tre settimane,
al termine del mese passato al centro
del Cesvi per prepararsi al suo primo
giorno in classe, con tre anni di ritardo.
Il perché lo spiega Gianpiera: «Semplice.
Famiglia poverissima. Non avevano
i soldi. Faceva lavori domestici a casa».
Storie tutte drammaticamente simili.
A qualcuno è andata meglio, ad
altri, come Diriye, un po’ peggio.
Lui la
mattina alle sei si doveva occupare di
distribuire l’acqua a qualche decina di
famiglie nel campo, acqua recuperata
dal pozzo da altri bambini, a un paio
di chilometri di distanza. Orfano di
padre, vive nel campo con la mamma
e sei fratelli scappati dalla città di
Corioley per sottrarsi agli scontri fra i
caschi blu e gli Shabab.
Guadagno? 200 scellini, cioè un
euro scarso al giorno. Anche lui non ha
mai messo piede in una classe scolastica.
Si avvicina la mamma di Diriye:
«Se mio figlio potrà studiare, sono certa
che la sua vita cambierà». Dice solo
questo. Un banco di scuola, a Mogadiscio,
è come vincere la lotteria.