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Mogadiscio, i bambini nella guerra

07/03/2015  In Somalia 38 mila piccoli rischiano la morte per fame. Tanti altri subiscono abusi e violenze. Siamo andati nella capitale, dove una Ong italiana cerca di proteggerli.

Dalla scaletta dell’aereo, Mogadiscio non sembra Mogadiscio. La luce abbacinante, l’aria calda e secca mitigata dalla brezza marina, l’Oceano Indiano che si spalanca a sud, il solito rumore dei velivoli. Non pare un aeroporto sotto assedio.
Tanto più ora che i cinesi stanno ultimando un nuovo ultramoderno edicio: un grosso cubo rivestito di vetri oscurati. Ma 100 metri più in là si intravede un alto muro, dopo il quale ce n’è un secondo, inframezzato da paraventi fatti di sassi trattenuti da reti metalliche.
Servono per limitare i danni delle autobombe. Oltre i muri Mogadiscio è Mogadiscio, con un’innita serie di edici bucherellati dai proiettili o squarciati da vecchie e nuove de‚agrazioni. E donne dai veli sgargianti, bambini in divisa scolastica bianco-azzurra, ragazzine dal velo blu che incornicia il volto, carretti e mercatini, auto dei “potenti” che girano con scorte armate pieni di soldati.

Tutto sembra scorrere nella calma apparente, tra il biancheggiare delle case, le strade polverose e devastate (tranne una, appena rifatta, che ricorda l’epoca coloniale), l’azzurro del mare e il sole a picco. Rimarremo nella capitale somala solo tre giorni, oltre diventeremmo un bersaglio. Sappiamo già, per le statistiche del terrore di Mogadiscio, che prima di ripartire almeno un’altra bomba o kamikaze saranno esplosi. «Benvenuti», ci accolgono Pietro Fiore e Gianpiera Mancusi, «la macchina e la scorta ci attendono». Sono i due cooperanti del Cesvi che operano nella capitale. Seguono i progetti di protezione dell’infanzia.

Echo, l’Ufficio per gli aiuti umanitari dell’Unione europea, finanzia l’intervento della Ong bergamasca: se la città è sotto assedio da parte degli Shabab (gli estremisti islamici “cugini” dell’Isis e di Boko Haram), i bambini di Mogadiscio e dintorni ne vivono un secondo: quello degli abusi, che si presentano sotto forma di violenze, stupri, lavoro minorile, privazione del diritto di andare a scuola, reclutamento (forzato?) da parte degli Shabab, in nome di un dio di violenza e sopraffazione che la Somalia, Paese di antiche tradizioni islamiche, non ha mai conosciuto, e che ora costringe anche le bambine di 5 anni a girare velate.

In città alloggiamo nell’unico albergo bergo considerato sicuro: è a 200 metri dall’aeroporto, ma ci si va lungo un camminamento protetto, con il fuoristrada dai vetri oscurati e la scorta. «Noi occidentali dobbiamo stare sotto protezione costante», spiega Pietro. «Ed è difficile lavorare così. Ma i bambini di protezione non ne hanno alcuna».
E in Somalia, il Paese del “fai da te” dove le istituzioni sono un optional, significa che capita loro di tutto. Anche di essere comprati dagli Shabab per forgiare nuovi terroristi. Perciò l’intervento del Cesvi consiste nell’andare a scovare in città e nei campi sfollati quelli che hanno subìto abusi, attraverso le operatrici locali, e di cercare di restituire loro un’infanzia normale, per quanto è possibile in una città che convive con la guerra dal 1991.

Secondo i dati, più di 38 mila bambini nel Paese sono ad alto rischio di morte per fame, 203 mila sono malnutriti. La fame, includendo anche gli adulti, colpisce oltre 730 mila persone. «In una situazione così disperata l’accesso all’educazione è scarsissimo», dice Fiore. «I tassi di scolarizzazione sono tra i più bassi al mondo: 18% dei ragazzi e 15% delle ragazze».
Il Cesvi, grazie a Echo, sta lavorando in città e in diverse altre regioni della Somalia, per assicurare ai più vulnerabili il ritorno a scuola, ma anche i libri, i quaderni, la divisa. «Lo stiamo facendo attraverso i quattro centri dove accogliamo, proteggiamo e curiamo i bambini più esposti», spiegano Pietro e Gianpiera, mentre ci avviciniamo a uno dei centri collocato all’interno di un campo profughi, in periferia. «Avrete mezz’ora, 40 minuti al massimo», ci avvisa il responsabile della sicurezza. Mezz’ora per visitare un’irreale oasi di pace, dove finalmente si sentono i bambini fare i bambini, schiamazzare e giocare, e le mamme con il pancione fanno i controlli medici.

Un piccolo spazio circondato dalla sterminata serie di tende tirate su alla buona, alla maniera somala, con teli di stoffa e di plastica, abitate da famiglie fuggite dalla guerra anche da due o tre anni, ammassate in centinaia di migliaia tutto intorno a Mogadiscio. «Da grande? Voglio fare l’insegnante », racconta Shamso. Un velo rosso le incornicia il volto e mentre parla sbircia il gruppetto di amiche ansiosa di tornare a giocare. Shamso ha 9 anni, e a scuola non c’è mai andata. Vi metterà piede fra tre settimane, al termine del mese passato al centro del Cesvi per prepararsi al suo primo giorno in classe, con tre anni di ritardo. Il perché lo spiega Gianpiera: «Semplice. Famiglia poverissima. Non avevano i soldi. Faceva lavori domestici a casa». Storie tutte drammaticamente simili. A qualcuno è andata meglio, ad altri, come Diriye, un po’ peggio.

Lui la mattina alle sei si doveva occupare di distribuire l’acqua a qualche decina di famiglie nel campo, acqua recuperata dal pozzo da altri bambini, a un paio di chilometri di distanza. Orfano di padre, vive nel campo con la mamma e sei fratelli scappati dalla città di Corioley per sottrarsi agli scontri fra i caschi blu e gli Shabab. Guadagno? 200 scellini, cioè un euro scarso al giorno. Anche lui non ha mai messo piede in una classe scolastica. Si avvicina la mamma di Diriye: «Se mio figlio potrà studiare, sono certa che la sua vita cambierà». Dice solo questo. Un banco di scuola, a Mogadiscio, è come vincere la lotteria.

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Donne (e ragazze) di Mogadiscio
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