«Don Tonino ha vissuto così: tra voi è stato un Vescovo-servo, un Pastore fattosi popolo, che davanti al Tabernacolo imparava a farsi mangiare dalla gente. Sognava una Chiesa affamata di Gesù e intollerante a ogni mondanità». Papa Francesco arriva a Molfetta, dopo la tappa nel paese natale di don Tonino Bello e incontra la gente che, in piedi già dal mattino presto, lo ha atteso con emozione. Nello stesso porto dove, 25 anni fa, furono celebrati i funerali del vescovo che la sua gente – e non solo – considera già santo, Francesco spiega il Vangelo. Tra i concelebranti anche monsignor Luigi Bettazzi, vescovo emerito di Ivrea e predecessore di don Tonino alla presidenza di Pax Christi.
L’omelia di Bergoglio ruota attorno a due parole: il Pane e la Parola. Il «pane è il cibo essenziale per vivere e Gesù nel Vangelo si offre a noi come Pane di vita, come a dirci: “di me non potete fare a meno”. E usa espressioni forti: “mangiate la mia carne e bevete il mio sangue”. Che cosa significa? Che per la nostra vita è essenziale entrare in una relazione vitale, personale con Lui. Carne e sangue. L’Eucaristia è questo: non un bel rito, ma la comunione più intima, più concreta, più sorprendente che si possa immaginare con Dio: una comunione d’amore tanto reale che prende la forma del mangiare. La vita cristiana riparte ogni volta da qui, da questa mensa, dove Dio ci sazia d’amore. Senza di Lui, Pane di vita, ogni sforzo nella Chiesa è vano, come ricordava don Tonino Bello: "Non bastano le opere di carità, se manca la carità delle opere. Se manca l’amore da cui partono le opere, se manca la sorgente, se manca il punto di partenza che è l’Eucaristia, ogni impegno pastorale risulta solo una girandola di cose"».
«Il Pane», continua Francesco, è «il “marchio di fabbrica” del cristiano. Si potrebbe esporre come avviso fuori da ogni chiesa: “Dopo la Messa non si vive più per sé stessi, ma per gli altri”. Sarebbe Bello se in questa diocesi di don Tonino ci fosse questo avviso, che fosse letto da tutti. Don Tonino ha vissuto così: tra voi è stato un Vescovo-servo, un Pastore fattosi popolo, che davanti al Tabernacolo imparava a farsi mangiare dalla gente. Sognava una Chiesa affamata di Gesù e intollerante a ogni mondanità, una Chiesa che “sa scorgere il corpo di Cristo nei tabernacoli scomodi della miseria, della sofferenza, della solitudine”. Perché, diceva, “l’Eucarestia non sopporta la sedentarietà” e senza alzarsi da tavola resta “un sacramento incompiuto”».
Il Papa chiede a ciascuno di porsi delle domande: «In me, questo Sacramento si realizza? Più concretamente: mi piace solo essere servito a tavola dal Signore o mi alzo per servire come il Signore? Dono nella vita quello che ricevo a Messa? E come Chiesa potremmo domandarci: dopo tante Comunioni, siamo diventati gente di comunione?».
Domande essenziali perché solo il Pane spezzato diventa anche «Pane di pace». Bergoglio cita ancora don Tonino che «sosteneva che “la pace non viene quando uno si prende solo il suo pane e va a mangiarselo per conto suo. […] La pace è qualche cosa di più: è convivialità”. È «mangiare il pane insieme con gli altri, senza separarsi, mettersi a tavola tra persone diverse», dove «l’altro è un volto da scoprire, da contemplare, da accarezzare”. Perché i conflitti e tutte le guerre “trovano la loro radice nella dissolvenza dei volti”. E noi, che condividiamo questo Pane di unità e di pace, siamo chiamati ad amare ogni volto, a ricucire ogni strappo; ad essere, sempre e dovunque, costruttori di pace».
E, con il Pane c’è la Parola. Parole “scandalose” sulle quali nascono subito discussioni: «Come può costui darci la sua carne da mangiare?», ricorda il Papa citando le parole dei discepoli. E poi aggiunge: «C’è un’aria di disfattismo in queste parole. Tante nostre parole assomigliano a queste: come può il Vangelo risolvere i problemi del mondo? A che serve fare del bene in mezzo a tanto male? E così cadiamo nell’errore di quella gente, paralizzata dal discutere sulle parole di Gesù, anziché pronta ad accogliere il cambiamento di vita chiesto da Lui. Non capivano che la Parola di Gesù è per camminare nella vita, non per sedersi a parlare di ciò che va e non va. Don Tonino, proprio nel tempo di Pasqua, augurava di accogliere questa novità di vita, passando finalmente dalle parole ai fatti. Perciò esortava accoratamente chi non aveva il coraggio di cambiare: “Gli specialisti della perplessità. I contabili pedanti dei pro e dei contro. I calcolatori guardinghi fino allo spasimo prima di muoversi”». E insiste: «A Gesù non si risponde secondo i calcoli e le convenienze del momento, ma col “sì” di tutta la vita. Egli non cerca le nostre riflessioni, ma la nostra conversione».
Ce lo ricorda anche l’esperienza di Saulo al quale Gesù chiede di alzarsi: «Alzati ed entra nella città e ti sarà detto ciò che devi fare». Quindi, aggiunge il Papa, «la prima cosa da evitare è rimanere a terra, subire la vita, restare attanagliati dalla paura. Quante volte don Tonino ripeteva: “In piedi!”, perché “davanti al Risorto non è lecito stare se non in piedi”. Rialzarsi sempre, guardare in alto, perché l’apostolo di Gesù non può vivacchiare di piccole soddisfazioni».
E poi, dopo essersi alzati bisogna entrare in città: «Anche a ciascuno di noi dice: “Va’, non rimanere chiuso nei tuoi spazi rassicuranti, rischia!”. La vita cristiana va investita per Gesù e spesa per gli altri. Dopo aver incontrato il Risorto non si può attendere, non si può rimandare; bisogna andare, uscire, nonostante tutti i problemi e le incertezze».
Tutti, sottolinea papa Francesco «siamo chiamati, in qualsiasi situazione ci troviamo, a essere portatori di speranza pasquale,
“cirenei della gioia”, come diceva don Tonino; servitori del mondo, ma da risorti, non da impiegati. Senza mai contristarci, senza mai rassegnarci. È bello essere “corrieri di speranza”, distributori semplici e gioiosi dell’alleluia pasquale». Sapendo che ci sarà detto cosa fare: «Saulo, uomo deciso e affermato, tace e va, docile alla Parola di Gesù. Accetta di obbedire, diventa paziente, capisce che la sua vita non dipende più da lui. Impara l’umiltà. Perché umile non vuol dire timido o dimesso, ma docile a Dio e vuoto di sé. Allora anche le umiliazioni, come quella provata da Saulo per terra sulla via di Damasco, diventano provvidenziali, perché spogliano della presunzione e permettono a Dio di rialzarci.
E la Parola di Dio fa così: libera, rialza, fa andare avanti, umili e coraggiosi al tempo stesso. Non fa di noi dei protagonisti affermati e campioni della propria bravura, ma dei testimoni genuini di Gesù nel mondo».