Le polemiche attorno all’assegnazione nel 2010 contestuale – mai accaduto prima – dei mondiali di calcio del 2018 alla Russia e del 2022 al Qatar sono sorte nell’immediato.
Ancor prima che spuntassero i sospetti di corruzione era parso a molti chiaro che le ragioni dello sport (giocatori, spettatori, società, allenatori di Nazionale e club) erano finite in minoranza rispetto a quelle degli affari, sconfitte dagli "argomenti" degli sceicchi e dei magnati. E comunque anche i sospetti si erano manifestati presto e messi nero su bianco dal Rapporto, secretato da Blatter, dell’indagine interna condotta dall’ex procuratore americano Garcia, finita per la Fifa in una bolla di sapone: “Nessuna corruzione, solo sospetti”. Conclusioni dalle quali Garcia si è apertamente dissociato. Non a caso, l’indagine dell’Fbi, ha radici in quel rapporto e le ragioni dello sport paiono tanto più neglette.
Al netto dell’indagine e dei sospetti, c’erano altri problemi, a tutti evidenti. Eppure ci sono voluti anni, fino al 2013, perché la Fifa cominciasse a porsi seriamente il problema pratico – quello politico di dar la vetrina a Paesi con diritti periclitanti non se l’è posto mai -: in Qatar, tra giugno e luglio, quando si giocano per solito i Mondiali, ci sono puro deserto e 50 gradi all’ombra. Non che ci volesse Mago Merlino per immaginare che trattandosi di giocare a calcio sarebbe stato quantomeno un po’ complicato.
All’inizio i signori della Fifa si erano immaginati fantasmagorici stadi refrigerati, poi hanno ripiegato non tante settimane fa sull’uovo di Colombo, più economico certo e più prosaico: niente tecnologie avveniristiche ma un più prosaico spostamento dei Mondiali prima di Natale. Dal 19 marzo scorso sappiamo che la finale del 2022 si giocherà il 18 dicembre e che il Mondiale durerà 28 giorni.
Con quali alti lai da parte delle società di calcio per le conseguenze sui campionati possiamo immaginare.