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martedì 26 settembre 2023
 
 

D'Ercole: ricostruire la speranza

14/08/2012  Vicedirettore della Sala stampa del Vaticano, è vescovo ausiliare dell’Aquila. Ha scritto un libro sul senso della vita rispondendo a una ragazza che l’aveva perso.

«Caro don Giovanni, mi chiamo Alice e ho diciannove anni. Ti scrivo solo due righe. Sono stanca di vivere e non ho più niente da chiedere a questa vita... Ciao. Alice ».
Quando ha ricevuto questo messaggio da una ragazza aquilana di 19 anni, monsignor Giovanni D’Ercole, vescovo ausiliare dell’Aquila, ha capito che non poteva limitarsi a una risposta generica, facilmente consolatoria. «Le dure parole di Alice mi hanno lasciato molto perplesso», confida, «perché una ragazza a questa età dovrebbe essere piena di vita e di progetti. Di fronte al suo grido di dolore mi sono reso conto che non potevo dare consigli. Potevo solo trasmettere la passione della vita. Se vivi la tua vita attimo per attimo le dai un senso e allora scopri che, anche nelle difficoltà, nulla va perso».

Così, per rispondere ad Alice, monsignor Giovanni D’Ercole ha scritto un libro che si intitola Nulla andrà perduto (Piemme). Il mio grido di speranza per l’Italia, aggiunge il sottotitolo di un testo dove la riflessione si accompagna sempre al racconto di una vita che Giovanni D’Ercole ha dedicato al sacerdozio e alla comunicazione.

Originario di Morino, in provincia dell’Aquila, 64 anni, entrato nella congregazione di Don Orione, monsignor D’Ercole è sacerdote dal 1974. Ha vissuto otto anni di esperienza missionaria in Costa d’Avorio, è stato vicedirettore della Sala stampa vaticana, ha avuto ruoli di responsabilità all’interno della Segreteria di Stato e dal 14 ottobre del 2009 è vescovo ausiliare dell’Aquila. Il suo volto è molto noto grazie alle sue frequenti apparizioni televisive. Da qualche settimana monsignor D’Ercole ha il cuore più leggero per l’assoluzione con formula piena in un processo che lo vedeva imputato con l’accusa di rivelazioni di segreti inerenti a un procedimento penale. Era una vicenda legata alla ricostruzione.

– Nel libro parla diffusamente di questa disavventura e spiega di aver imparato tre cose: vigilanza, prudenza, tener separate la cura delle anime dalla gestione del denaro. Come si sente adesso?

«Mi resta dentro una grande ferita. Non tanto per la vicenda giudiziaria, quanto per l’attacco mediatico, che a un certo punto ti fa apparire quello che non sei. La lezione che traggo è che nella vita bisogna essere pronti a tutto. Anche quando pensi di agire nella più perfetta buona fede, l’insidia è dietro l’angolo, non devi mai perdere la fiducia, soffri tanto, ma alla fine la verità esce fuori».

– Lei scrive che «il terremoto d’Abruzzo è la metafora dello sconquasso italiano». Come?

«Qui il terremoto non ha rotto solo le case, ma ha distrutto le persone dentro. Si sono spezzati tanti legami, la gente si è dispersa sul territorio, c’è una vera e propria emergenza relazionale. Perciò serve ricostruire non solo le case, ma anche i cuori delle persone. È necessario non solo all’Aquila ma in tutta Italia, soprattutto in questo momento di difficoltà economica. Dobbiamo superare lo scoraggiamento, la sfiducia e quello che io chiamo il “tristismo” riprendendo in mano il nostro futuro, raccogliendo ogni frammento di bontà e bellezza perché nulla vada perduto».

– Qual è il sentimento prevalente, oggi?

«In questo momento vedo all’Aquila una grande attesa. Dopo i primi entusiasmi per le case nuove c’è stato il tempo delle polemiche, ora prevale l’attesa per degli interventi risolutivi, non frenati da troppe polemiche e dalla burocrazia. Ma c’è anche l’ombra della paura, perché se l’erba cresce sulle rovine fra un po’ qui vedremo solo un grande campo abbandonato».

– Come si ricostruiscono le relazioni umane?


«Ricreando punti di ritrovo e di aggregazione per le persone. La gente ne ha un disperato bisogno. Lo vedo, in questo periodo estivo, nelle feste patronali e nelle sagre. È bello anche vedere la funzione positiva delle “tende amiche” costruite attorno alle case nuove. Lì, nelle tende, le persone tornano a stare insieme, si ritrovano. Allora ti rendi conto che la grande ricchezza dell’amore che unisce è la leva che aiuta a superare le difficoltà».

– La gente d’Abruzzo cosa chiede alla Chiesa?

«Spiritualità. Non una religiosità fatta di riti, ma la testimonianza della presenza di un Dio che non ti fa mai sentire abbandonato».

– Dopo tanti anni di lavoro in Vaticano come sta vivendo questa esperienza di vescovo in una realtà così complessa come l’Abruzzo ferito dal terremoto?

«Mi sono risentito missionario. La situazione di precarietà del territorio aquilano dopo il sisma mi ha fatto rivivere l’esperienza africana, dove a volte celebravo Messa in una capanna, spesso in situazioni difficili. Qui ho riscoperto la bellezza delle piccole cose, il contatto umano, il lasciarsi provocare dalle persone che quotidianamente incontri».

– Da uomo di comunicazione come ha vissuto le vicende legate al “corvo” vaticano?

 «Le ho vissute con una grande sofferenza. La mia fatica è stata quella di spiegare alla gente che cosa succede nella Chiesa. Ho sempre detto che questo è un episodio minimo rispetto alla grandezza della Chiesa. C’è stata una distorsione ottica prodotta dal sensazionalismo mediatico. Ogni cosa va riportata nel suo alveo. Parliamo di una persona che si è comportata scorrettamente in un posto di massima fiducia. Non è uno scandalo della Chiesa. In tutto questo non perdiamo di vista la grande dignità e anche la grande sofferenza con cui il Papa sta vivendo tutto ciò».

– È vero che da giovane voleva farsi sacerdote paolino?

«Sì, nel libro racconto il mio incontro con il beato Giacomo Alberione. Lo andai a trovare nella casa dei Paolini, in via Alessandro Severo, quando già era molto anziano. Volli incontrarlo perché, pur avendo già fatto il noviziato dagli orionini, sentivo la vocazione al giornalismo. Lui mi disse con grande decisione: “Che cosa vai cercando? Il tuo padre è don Orione, non don Alberione. Continua sulla tua strada”. Per me è stato rassicurante, lo considero uno dei miei beati protettori».

– Lei è sempre stato appassionato di corsa, trova ancora il tempo di andare a correre?

«Purtroppo no, ma mi ripropongo ogni giorno di ricominciare. Lo farò piano piano, altrimenti si invecchia di botto».

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