Monsignor Matteo Zuppi.
Nell'estate dell'anno scorso il mensile Jesus ha organizzato a Roma un convegno sul tema del coraggio: quello di esser giovani oggi in Italia, di essere cristiani impegnati, di comportarsi da cittadini responsabili. In sintesi, un convegno su chi spera contro ogni (almeno apparente) speranza. Al convegno parteciparono suor Jenevieve Jeanningros delle piccole sorelle di Charles de Foucauld, Elena Bonetti (incaricata nazionale branca Rover e Scolte di Agesci), Chiara Canta (docente di Sociologia dei processi culturali) e monsignor Matteo Zuppi, allora vescovo ausiliare di Roma e adesso, da poche ore addirittura, arcivescovo di Bologna. E' interessante rileggere, alla luce della nuova nomina, le risposte che in quell'occasione monsignor Zuppi diede ad alcune domande cruciali.
- Facendo un esame di coscienza, quali sono gli ambiti in cui di recente la Chiesa non ha avuto abbastanza coraggio? Quali invece i temi su cui ora la Chiesa è chiamata ad averne?
"La Chiesa siamo tutti quanti noi, occorre quindi fare tutti insieme un'autocritica. Oggi si parla di opportunismo, di adattamento, di modi cangianti per assecondare la mentalità comune: questo sostanzialmente, per molti di noi, è una delle prime grandi mancanze di coraggio. Credo che la Chiesa abbia avuto poco coraggio di schierarsi e soprattutto di cercare delle priorità. La grande tentazione della Chiesa è di dire la sua su tutto, ma di non avere una priorità. Invece, papa Francesco sta dimostrando che esiste una gerarchia di importanza nelle cose. Quando dici tutto ma in fondo non dici niente, quando hai la preoccupazione di non sbagliare: in questi casi, forse, il problema è la paura di sbagliare, quella che Francesco definirebbe la tentazione della "Chiesa perfetta", dove però, a ben vedere, non c'è amore. Il Papa insiste tantissimo su questo aspetto e, per certi versi, è un invito molto liberante.
Eppure, nonostante tale sdoganamento, tale "assicurazione papale", abbiamo comunque paura di sbagliare e tendiamo a rintanarci. I discepoli, dentro il cenacolo, forse si sentivano molto coraggiosi a stare insieme. ma il loro era un coraggio inutile, un coraggio che nessuno chiedeva. Il cambiamento,
invece, risiede nell’amore, nella
passione, nello spirito che mi fa “uscire”
e parlare alle persone “di fuori”,
che aspettano. Questo cambiamento,
che Francesco con l’Evangelii gaudium
ci richiede in maniera molto chiara,
non consiste nell’essere coraggiosi, ma
nell’essere innamorati, nell’uscire appunto,
nell’andare fuori. Eppure, se
coraggio è aprire la porta, vuole dire
che l’abbiamo chiusa, che siamo talmente
pieni di paure per cui l’andare
in giro diventa coraggio.
Quando Francesco nell’Evangelii
gaudium parla di coraggio, dice che
il problema non è fare proselitismo.
Molte volte ci si sente coraggiosissimi,
quasi dei kamikaze, ad andare contro la
mentalità comune e a sfidarla. Invece,
spesso tante persone non aspettano altro
che qualcuno parli loro in maniera
personale, affettiva, che spieghi qualche
cosa, che si metta a camminare accanto
a loro. Quando Francesco parla
di coraggio, chiede innanzitutto quello
di parlare, di non trincerarsi dietro il
“si è fatto sempre così”, che è poi una
sorta di coraggio conservativo. Invece,
il Papa invita ad avere generosità e
il coraggio di applicare questi orientamenti
senza divieti né paure. Questo
è il vero coraggio, cioè prendersi delle
responsabilità. Ma alla Chiesa, a volte,
questo coraggio è mancato. Quanto ai
laici, c’è un modo di dire argentino secondo
il quale il tango bisogna sempre
ballarlo in due: cioè, da un parte c’è il
clericalismo dei preti; dall’altra, però,
anche tanti laici che sono più clericali
del clero. In fondo, il problema è stato
quello di non aver avuto il coraggio di
vivere una comunione profonda, che è
poi la vera alternativa al clericalismo.
Il coraggio di papa Francesco è
quello di raggiungere tutte le periferie,
quindi di uscire dalle proprie comodità.
È indicativo che il Papa parli di coraggio
più per i problemi interni della
Chiesa che per le grandi sfide dell’umanità.
E non perché i “grandi” nemici
non ci siano: in tanti sfidano la Chiesa.
Però, Francesco ribadisce che è necessario
il coraggio di trovare nuovi segni,
nuovi simboli, una nuova carne per la
trasmissione della Parola. L’altra forma
di coraggio che chiede è quella di
andare oltre la superficie, il coraggio di
non essere banali, di essere “interiori”,
di cercare l’unità che è sempre superiore
al conflitto. Insomma, la Chiesa
deve stare alla porta sempre ma, soprattutto,
deve avere delle priorità.
Quindi, il vero coraggio che ci viene
chiesto è quello di essere noi stessi;
di ripartire da ciò che è essenziale; di
non aver paura di trovare; del dialogo
come metodo per risolvere, per capire,
per scoprire la presenza di Dio che c’è
già nel mondo; di ravvivare il dialogo
interno alla Chiesa, visto che ultimamente
ce n’è stato poco, con troppe
incomprensioni e troppi ruoli vuoti.
Serve il coraggio di mettersi insieme
e di essere comunità; il coraggio di
pensarsi come una comunione. Sono
queste le grandi sfide. La carità ci rende coraggiosi e su questo la storia della
Chiesa è ricca di esempi, di tanti testimoni:
uomini coraggiosi perché liberi,
perché innamorati".
- Papa Francesco ha avviato una rivoluzione
anche all’interno della Curia.
Quanto costa riformare la struttura
della Chiesa?
«Una cosa che è
chiara è quanto sia
costato non rivoluzionare la Curia: è
costato tantissimo. La scottante questione
dello Ior, ad esempio, è costata
e costa ancora moltissimo dal punto di
vista dell’immagine. Non so quante
“sette” sono nate e si sono nutrite della
polemica sulla gestione della banca
vaticana, sulla quale papa Francesco
ha operato, con molta insistenza, dei
cambiamenti non facili. È costato tantissimo
non cambiare, oppure farlo a
piccoli passi, con l’idea che una ricostruzione
sbagliata per il Vaticano sarebbe
stata troppo, perché già in tanti
hanno provato a cambiare lo Ior. Benedetto
XVI, ad esempio, aveva dato delle serie indicazioni per la sua trasformazione.
Ora, è urgente operare
delle scelte “costose”. Ad esempio,
bisogna attribuire alle cose il proprio
nome: già questo tentativo sarebbe
un segno del coraggio e, se vogliamo,
anche della semplicità, della serenità
con cui Francesco affronta le questioni.
Come fa? Appunto, le chiama con
il proprio nome.
Nell’Evangelii gaudium
è presente una critica feroce su
certi atteggiamenti dei cristiani.
Francesco ha parlato della loro tentazione
a vivere in una perenne Quaresima
senza Pasqua, ci ha chiamati
mummie pietrificate: tutti paragoni
che sembrano battute ironiche, mentre
il Papa non scherza affatto. Di sicuro
è molto forte la tentazione di
dire “si è sempre fatto così”, mentre
serve il coraggio che parte da dati
concreti, dalla necessità di ritrovare a
ogni costo una motivazione vera, di
richiedere a tutti quanti una motivazione
di servizio. Penso per esempio
allo spezzare gli automatismi interni.
Quante volte Francesco dice di preferire
la discussione e il confronto a un
finto accordo, tipico modello clericale
di piaggeria e di convenienza; gli automatismi
sono del resto il meccanismo
del carrierismo. Se invece alla base
delle scelte c’è il servizio, allora non ci
sono gli automatismi. Ma questo sicuramente
ha un prezzo. Qual è, dunque,
il coraggio di papa Francesco?
Quello di volere un bene enorme alla
Chiesa e, proprio perché ama la Chiesa,
cercare con coraggio: in questo
modo, è libero da tutto ciò che profana
la Chiesa e la rende un laboratorio.
Il Papa cerca molte volte il coraggio
di uscire da questo laboratorio, di
non prendersi “i precotti”, che sono
bellissimi e convenienti, perché non
richiedono responsabilità. In Francesco
c’è una grande passione e anche
una serena consapevolezza di questa
grazia che abbiamo. Per questo
è coraggioso: è un uomo che si sente
molto amato, sente un grande amore
per Dio, per la Chiesa e sente quanto
siamo infinitamente amati. È anche
gioioso. Molte volte, il coraggio non
si concorda con la gioia, per cui lo
stesso Francesco si rende conto che
questi cristiani saranno certamente
coraggiosi, ma sono noiosi, si sentono
dei supereroi. Invece, lui invita a
essere contenti, a guardarsi intorno,
farsi voler bene, cercare di scoprire
quanta domanda d’amore ci sta intorno.
Che cosa dobbiamo fare? Ascoltare.
Soltanto poi si può cominciare
a parlare. Il metodo che ha scelto per
rivoluzionare la Curia è quello del lavoro
trasparente e collegiale, molto
diverso dal pettegolezzo. Con grande
senso di fiducia, con grande coraggio
ha concesso molta responsabilità ai
laici, anche alle donne. Francesco ha
la fraternità come metodo di comunione,
come nutrimento per le sue
scelte. Poi, con grande serenità e con
grande gioia, pensa alla rivoluzione.
Ma con serenità, perché sia lui sia
papa Benedetto ci hanno ricordato in
tutti i modi che c’è Dio, che la Chiesa
è del Signore. E questo ci permette di
essere serenamente seri».
- Quale coraggio serve oggi per andare
incontro ai tanti fedeli che negli
ultimi decenni hanno abbandonato la
Chiesa?
«Anche in questo, il
Papa ci aiuta molto,
perché ci libera da una serie di costrutti
negativi. Il coraggio di Francesco è la
misericordia, è il raccogliere tutto, non
temere nessuna “commistione”. Quando
siamo sporchi, sporchiamo ogni
cosa che tocchiamo. Quando abbiamo
il cuore puro, invece, tocchiamo tutto
in maniera limpida, perché tutto diventa
vicino. Mi sembra che questa sia
la ricetta di Francesco per quella generazione
e per i tanti fedeli che si sono
allontanati dalla Chiesa, a partire dalla
fine degli anni Sessanta fino a oggi. Il
vero coraggio è credere, e tanto, alla
misericordia. Il Papa non fa “sconti di
gruppo” ma mette al centro il Vangelo,
e in questo si rivela essere molto esigente.
Ed è proprio questo il punto da
dove si riparte, e che aiuta a riaffrontare
e risolvere i problemi veri».