La morte assistita dell’attrice romana Sibilla Barbieri, malata oncologica da dieci anni, ormai terminale, lunedì 6 novembre scorso, ancora una volta ci interroga, prima di tutto da un punto di vista umano. Ne parliamo con monsignor Vincenzo Paglia, presidente dalla Pontificia Accademia per la vita. «Anzitutto conviene metterci in una prospettiva un po’ più ampia riguardo alla morte. Dobbiamo evitare che ci sfugga che il problema fondamentale sia il sostenerci reciprocamente nell’impegno per vivere, non come contribuire a darsi la morte. Questo richiede uno stile di vita basato sulla forza dei legami, che ci rende partecipi della vulnerabilità e della sofferenza degli altri. Così potremo concentrarci sulla cura da prestare alle persone malate, anche in situazioni gravi».
In secondo luogo, provoca la nostra fede.
«Certo un evento di questo tipo ci pone la domanda di come riusciamo a trasmettere agli altri, a partire dalla nostra relazione con il Signore, ragioni per vivere ed energie per camminare, anche nei momenti di prova e di contraddizione. Questo significa considerare il limite e la perdita non come una negazione definitiva del senso, ma come un momento da includere nella sua ricerca. Il Vangelo direbbe: “chi non perde la propria vita, non la trova”. E questo è un compito che può essere svolto non da soli, ma come comunità: le società e le culture hanno sempre messo a disposizione risorse molteplici per questa elaborazione».
Alla base, però, di queste scelte c’è un diritto disatteso, quello alle cure palliative per tutti.
«Le cure palliative vanno esattamente nella direzione accennata sopra: non combattono più la malattia, cercando di sconfiggere il limite che essa rappresenta. Ma riconoscono il momento in cui si tratta di alleviare i sintomi, in particolare il dolore, accettando di non poter più ottenere la guarigione e accompagnando la persona verso la morte. Anche quando non si può guarire si deve sempre curare. Esse intendono quindi prendersi cura della persona in modo complessivo, includendo la sua famiglia e senza dimenticare il personale sanitario, che anche richiede di essere sostenuto».
Qual è il valore delle cure palliative? Vincere la solitudine del malato? Accompagnarlo a una morte umana?
«Le cure palliative rispondono così a quella paura di soffrire che spesso determina una richiesta di accelerare la morte. Quando la persona malata si accorge che il dolore può essere sconfitto e che non è abbandonato da sola nella prova che sta attraversando, non solo si rasserena, ma può anche scoprire una profondità nelle relazioni e delle luci nella vita, che non si sarebbe mai immaginato. Tuttavia, non per tutti è così. Il modo con cui ciascuno si avvicina alla morte è molto personale: non c’è nulla di più violento e irrispettoso che dire agli altri quello che significa la sofferenza, come fanno gli amici di Giobbe, contro i quali giustamente il personaggio biblico si ribella. Detto in altre parole, non tutti trovano nelle cure palliative la risposta alle proprie esigenze. Ma penso che sia una conclusione a cui arrivare dopo averne potuto fare esperienza e dobbiamo dire che nel nostro Paese, e nel mondo ancora di più, non riusciamo ancora a renderle disponibili in modo adeguato, nonostante una buona legge che ne regolamenta la pratica».
Monsignor Vincenzo Paglia, 78 anni, presidente della Pontificia Accademia per la Vita (foto Vatican Media)
Papa Francesco nel 2015 disse: «Incoraggio i professionisti e gli studenti a specializzarsi in questo tipo di assistenza che non possiede meno valore per il fatto che ‘non salva la vita’. Le cure palliative realizzano qualcosa di altrettanto importante: valorizzano la persona».
«La frase di papa Francesco mette in luce una mentalità che vede nella medicina un’attività volta alla guarigione, attraverso l’impiego di tecnologie avanzate, in cui l’innovazione mostra la sua potenza. Le cure palliative, pur richiedendo nei casi complessi competenze avanzate, non impiegano tecnologie sofisticate e soprattutto richiedono di fare i conti con la propria impotenza, vissuta però come parte della condizione umana, non come sconfitta. E questo non è un atteggiamento interiore spontaneo, ma richiede un cammino personale profondo e impegnativo».
In Italia il diritto alle cure palliative è sancito da ben due leggi, la 219 e la 38 del 2010: “cure palliative e terapia del dolore diritto per tutti”. Ma i numeri parlano chiaro: la richiesta di cure palliative viene soddisfatta solo al 23 per cento, in alcune regioni anche meno (17%). È possibile?
«Questa è la situazione. Si tratta di promuoverne la pratica, anche favorendo una migliore comprensione del loro significato culturale, nel senso di cui abbiamo sopra parlato. Senza contare che, pure dal punto di vista economico, contrariamente a quanto talvolta si sente dire, i dati mostrano un effetto di contenimento dei costi. La riduzione della spesa può attribuirsi a un duplice motivo. Da una parte, le cure palliative limitano la medicina difensiva, i cui costi sono stimati in Italia dell’ordine dei 10 miliardi di euro ogni anno: il dialogo tra medico e paziente e la Pianificazione Anticipata delle Cure, prevista dalla legge 219, facilitano accordi più chiari sulle cure da somministrare, evitando contenziosi. D’altra parte, esse favoriscono un uso proporzionato degli interventi diagnostici e terapeutici, laddove sappiamo che la maggior parte dei costi della salute si riferiscono agli ultimi mesi di vita del paziente. Questo non significa ridurre arbitrariamente i trattamenti, ma valutare con maggiore attenzione la loro reale appropriatezza e proporzionalità».
Di che diritti allora dobbiamo parlare? Del diritto di decidere liberamente della propria vita o, in realtà, del diritto ad avere cure adeguate per una sofferenza estrema?
«Di tutti e due. Mi spiego. Noi siamo chiamati a decidere liberamente della nostra vita: è il compito che Dio creatore ci assegna affidandoci a noi stessi. Ma liberamente non significa arbitrariamente, quanto piuttosto responsabilmente. Cioè in modo sensato. Come dice Gesù: “Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la sua vita per i propri amici” (Gv 15,13). Quindi in un solo versetto ci viene detto che: 1) la vita “biologica” non è un valore assoluto, da prolungare a tutti i costi, e 2) a ognuno la vita è affidata perché sia spesa per gli altri, non tenuta per sé. Proprio in questa linea, le cure palliative vengono incontro alla esigenza fondamentale di alleviare quella sofferenza che impedisce di vivere in modo umanizzante il tempo della malattia più grave e di incontro con il passaggio della morte».