“Ammammaloccuto” diventa “flabbergasted”. Per “santiare” si è inventato l'espressione “to curse the saints”. Sui “cabasisi” se l'è cavata con “cahonies”, «una parola americana un po’ buffa che deriva dallo spagnolo “cojones”, slang sempre più diffuso nel Nordamerica e quindi comprensibile per molti». Certo, poi ci sono quei racconti più dettagliati di un rapporto del Ris che le comari di Vigata forniscono al commissario Montalbano: «In secùndisi, bastava vidiri comu si faciva taliare da me' maritu e da me' figliu. Una vota, signor commissario, trasii in cucina ca me’ maritu si era fattu fari un cafè. La sapi una cosa? Me’ maritu con una manu tiniva la tazzina, mentri cu l’autra accarizzava ‘u culu della picciotta». Per non parlare del catarellese, irresistibile miscuglio d’italiano burocratico e dialetto strampalato.
L'uomo che da più di vent'anni traduce il “camillerese” in inglese si chiama Stephen Sartarelli, 66 anni, origini italiane. Dopo aver vissuto e lavorato a New York, dal 2002 si è stabilito nel Perigord, sudovest della Francia, una regione che ricorda molto la Toscana, dove vive insieme alla moglie Sophie, pittrice e artista grafica. Se Andrea Camilleri ha venduto milioni di copie della saga di Montalbano all'estero, lo deve (anche) alle acrobazie linguistiche inventate da questo signore in oltre vent'anni di traduzioni, dal romanzo d'esordio, La forma dell'acqua, uscito nel 1994, a quello postumo, Riccardino pubblicato l'estate scorsa, un anno dopo la morte dello scrittore e che Sartarelli ha appena finito di tradurre. Gaia Romeo, una giovane studentessa del corso di Mediazione linguistica dell'Università Iulm di Milano, due anni fa gli ha anche dedicato una bella tesi di laurea, Tradurre Camilleri: invenzioni oltreoceano.
Sartarelli, quante lingue conosce?
«Parlo italiano, inglese, francese e un po’ di spagnolo».
Ma il suo Dna è italiano…
«Al cento per cento. Mio padre è nato ad Ancona, mia madre a Roma. Sartarelli è un tipico cognome marchigiano».
Che infanzia è stata la sua?
«Bella ma piuttosto movimentata. Papà era medico e faceva la spola tra gli Stati Uniti e l'Italia per vari anni prima di stabilirsi in Ohio. Mia sorella è nata a Roma, io in Ohio. Sin da bambino sono stato perfettamente bilingue e parlavo italiano e inglese. Ho frequentato l'asilo in Italia e le elementari in America. Ogni estate venivamo in vacanza un mese a Grottammare».
Dove le piaceva stare di più?
«In Italia. Per un adolescente crescere in America è dura. I riti per i giovani maschi erano e sono molti diversi rispetto al nostro Paese perché la società americana è profondamente violenta. Qui mi sentivo più accettato e rilassato, c'era meno competizione. In America un ragazzo deve sempre affermarsi fisicamente e le risse fanno parte della cultura. Io odiavo questo modo di fare, ero pacifista, mi piaceva starmene tranquillo».
I suoi studi?
«Ho frequentato una scuola internazionale americana a Roma per due anni che ora non esiste più. Diploma di laurea in Ohio e dottorato alla New York University che non ho mai concluso. Mi sono fermato al master. Ho fatto sempre studi letterari con l'idea di diventare poeta. In realtà, anche se lo parlavo fin da piccolo, non avevo mai studiato l'italiano. All'Università ho dovuto approfondire bene la grammatica. Se prendevo in mano un giornale, ad esempio, non capivo tutto».
In quale lingua scrive le sue poesie?
«Quasi esclusivamente in inglese. In italiano e francese ho scritto pochissimo. Mia moglie dice che a seconda della lingua che parlo, cambio personalità (ride, ndr). In francese divento più polemico e meno lirico, forse perché ho meno maestria della lingua».
E in italiano?
«È più espressivo ed elastico perché puoi cambiare l'ordine delle parole a seconda delle esigenze espressive del momento. L'inglese invece è molto caotico, un miscuglio di latino e anglosassone con la grammatica germanica e un sacco di eccezioni. Insomma, un macello. Le lingue romanze sono più ordinate».
Stephen Sartarelli, 66 anni, è il traduttore in inglese di tutta la saga di Montalbano
Quando inizia a tradurre?
«Al College mi cimentavo a tradurre alcune poesie dal francese e dall'italiano in inglese e mi accorsi subito che se uno conosce la lingua sente l'intonazione della frase sulla pagina, se tratti la lingua come morta non senti nulla. Capii che avevo un certo vantaggio nella traduzione dell'italiano, avendo sempre parlato e sentito questa lingua. E mi venne in mente che era forse un mestiere che potevo fare per poter vivere facendo il poeta».
La svolta quando arriva?
«Un professore dell'Università di New York mi aveva segnalato per tradurre gli scritti giovanili di Massimo Cacciari che era abbastanza ostico anche perché s'ispirava ad autori francesi incomprensibili tipo Lacan, Derrida e Foucault».
Non le stanno simpatici.
«Troppo oscuri, quasi dei ciarlatani. L'unico che salvo di quella scuola è Roland Barthes, perché, a differenza degli altri, scrive in un francese chiaro e conciso. Voltaire che è un autore del Settecento, per dire, è molto più comprensibile di Derrida o Lacan».
Torniamo a Cacciari.
«Dopo che lo tradussi, diversi colleghi mi dissero: “Bravo, finalmente riusciamo a capirlo”. E lì compresi che avevo un certo talento (ride, ndr)».
Ma non era ancora il suo mestiere.
«No. Mio padre conosceva William Weaver che all’epoca era il principale traduttore americano e anglofono di letteratura italiana e aveva tradotto, tra gli altri, Moravia, Calvino e Umberto Eco. Mi disse: “Perché non gli scrivi una lettera?”. Lo feci inviandogli dei fogli tradotti dell'Horcynus Orca di Stefano D'Arrigo, un mattone di oltre mille pagine uscito nel 1975. Senza che mi dicesse una parola, Weaver fece in modo che il brano vincesse un piccolo premio per traduttori debuttanti. Subito dopo, arrivò la prima proposta di una casa editrice importante e così cominciai. Avevo 28 anni».
Guadagna bene?
«No, un idraulico guadagna più di me però, a differenza mia, l'idraulico non finisce mai sui giornali e nessuno chiede di intervistarlo (ride, ndr)».
A Montalbano come ci arriva?
«La proposta di tradurlo arrivò a Weaver nel 2000 ma siccome lui era impegnato con Umberto Eco declinò. Poi mi chiamò e mi disse: “Se tu sei interessato, metto una buona parola”».
E lei?
«Accettai, anche se avevo molte perplessità. Mi mandarono subito i primi due romanzi: La forma dell'acqua e Il cane di terracotta».
Perché era titubante?
«Ero un po’ snob verso i gialli ma dopo averli letti li trovai entrambi molto belli e accattivanti. La strategia espressiva e morfologica di D'Arrigo è simile a quella di Camilleri perché tutti e due italianizzano il siciliano, anche se quello di D'Arrigo è parlato nel Messinese ed è diverso da quello di Camilleri».
Insomma, tradurre Montalbano sembrava una passeggiata.
«Un attimo. Siccome avevo già l'esperienza di D'Arrigo, la cosiddetta difficoltà di Camilleri per me praticamente non esisteva. Dopo venti pagine capivo tutto dal contesto, anche quando non conoscevo certi vocaboli. Da questo punto di vista, non c'erano grossi problemi. Il problema è nella resa della traduzione. Gli anglosassoni sono molto intransigenti, sono fissati sulla consistency, la coerenza del testo. Tutto il contrario di Camilleri. Io cercavo di spiegare alla casa editrice che un autore come lui può scrivere la stessa parola in quattro modi diversi, e che bisogna necessariamente trovare una via di mezzo. Se traducevo con espressioni inventate o poco comuni rischiavano di non passare il controllo stilistico dei giovani redattori che erano un po’ ignoranti e usavano mettere in discussione le parole che loro non riconoscevano».
Sartarelli (di spalle) con Andrea Camilleri a Roma nel 2013
Quindi ha cambiato stile in corso d'opera?
«All'inizio ero un po’ più timido e quasi appiattivo il linguaggio di Camilleri, anche se bisogna dire che traducendo il dialetto, il linguaggio viene sempre un po’ appiattito. E così ne usciva un inglese un po’ più normale, ma comunque sempre appoggiandosi allo slang americano».
“La lingua esprime il concetto, il dialetto il sentimento di una cosa”, diceva Pirandello.
«Esattamente. Il traduttore tedesco di Camilleri disse una volta che il dialetto non si può tradurre però va tradotto in tutti i suoi aspetti. Bisogna forzare la lingua d'arrivo e creare nuovi spazi per accomodare il testo originale. Man mano che andavo avanti a tradurre anche i redattori della casa editrice si sono rilassati e io ero più libero di fare quel che volevo. Anche perché, con il passare degli anni, Camilleri utilizzava sempre di più il dialetto rispetto all'italiano».
Come fa a tradurre Catarella?
«È un fenomeno perché mescola l'italiano, che non conosce, al gergo poliziesco e burocratico in un miscuglio esilarante e allucinante. Ormai ho elaborato una strategia: quando arrivo a lui devo rallentare e pensare quali soluzioni trovare. Mi diverto un sacco a tradurlo e quando rivedo il testo lo raffino molto perché la lingua di Catarella è cangiante, si presta molto ad essere modellata con fantasia e creatività, utilizzando giochi di parole».
Le piace la serie televisiva di Montalbano?
«Rispetto alla norma delle fiction italiane è molto bella ma io sono pasoliniano, detesto la Tv e la guardo pochissimo».
Non ha visto neanche un episodio?
«Quattro o cinque, forse».
Cosa non le piace?
«C'è troppa estetica televisiva. La casa e il commissariato di Montalbano sono lussuosi, sembrano dimore nobiliari. Nella mia fantasia m'immagino ambienti molto più malandati. Alla fine ho fatto bene a non guardarli per non farmi influenzare durante il mio lavoro».
E il cast?
«La prima Livia (interpretata dall’attrice austriaca Katharina Böhm, ndr) era pessima. L'attore che interpreta Mimì Augello (Cesare Bocci, ndr) sembra quasi più vecchio di Zingaretti, mentre nei romanzi ha quindici anni di meno. E Fazio doveva essere più vecchio di Montalbano».
Luca Zingaretti?
«Bravissimo ma non è il Montalbano di Camilleri. È troppo basso, ha le gambe storte, è calvo ed è romano. Io sono d'accordo con il maestro che in Riccardino afferma che quello della Tv è il Montalbano di Zingaretti, non il suo».
In Italia si discute se portare in Tv proprio Riccardino. Il sindaco di Noto ha pure lanciato un appello.
«Riccardino è bellissimo ma è un meta romanzo, una meta fiction. Ho l'impressione che Camilleri l'abbia scritto anche per renderne più difficile la trasposizione televisiva».
Ha conosciuto Camilleri “di persona personalmente”?
«Certo. Una volta chiacchierammo a lungo del film di Pietro Germi, Un maledetto imbroglio, tratto dal romanzo di Carlo Emilio Gadda Quer pasticciaccio brutto de via Merulana, e dove Germi interpreta il ruolo del commissario Ingravallo. Gli dissi che un tipo come Germi sarebbe stato perfetto, anche fisicamente, per interpretare Salvo Montalbano».
E cosa le rispose?
«Mi disse che avevo proprio indovinato il suo pensiero, cioè che per lui, il modello fisico per Montalbano era appunto l'Ingravallo di Germi».
Conosce i luoghi dov'è stata girata la fiction?
«Non ci sono mai stato e me ne pento. Camilleri nei primi anni mi aveva invitato più volte, ho sempre rimandato e alla fine il viaggio è sfumato. Della Sicilia conosco molto bene solo Palermo. Da quando vivo in Francia sono diventato un provinciale che, come tutti i provinciali, non si muove dalla propria città neanche per andare a Parigi, figuriamoci in Italia».
L'attore Angelo Russo, 59 anni, è il mitico Catarella della fiction (Ansa)