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mercoledì 23 aprile 2025
 
 

«Moriranno tutti», disse Schiavone. Sta accadendo

03/11/2013  Le rivelazioni dell'ex boss dei Casalesi ha portato alla luce il problema dell'inquinamento del territorio ben al di là dell'immaginabile. Gli abitanti delle zone che lui ha indicato scendono in piazza. E si cominciano a contare i morti. Non sarebbe ora di fare piena luce sui complici, le coperture, gli imprenditori conniventi, i “padrini” che permisero una tale devastazione?

Nessuno, fino ad oggi, ha contato i morti. Migliaia, probabilmente, in una terra che una volta chiamavano felix. Inizia dalla provincia di Latina, e scende fino alle porte di Salerno. Al centro c’è una città di poco più di ventimila abitanti, Casal di Principe, dove due o tre famiglie hanno gestito un sistema criminale lungo trent’anni. La chiamano Gomorra questa terra, ma di biblico ha ben poco. È stato lo sversatoio delle industrie dell’intero Paese, ospitando – di tanto in tanto – anche i peggiori veleni arrivati dal nord Europa.

Fatti conosciuti, studiati, analizzati. Non più un segreto, almeno dal 1993, quando la procura di Napoli, con l’inchiesta Adelphi, raccolse le prime prove dell’immenso, criminale, aberrante traffico di rifiuti verso le campagne tra il Sud del Lazio e la provincia di Caserta.

Eppure le parole di Carmine Schiavone – uno dei primissimi collaboratori di giustizia dei casalesi – stanno creando da un paio di mesi un piccolo tornado. Oggi ha settant’anni. Spiega: «Per vent’anni ho studiato, per altri trenta ho fatto il mafioso, e per altri venti ho avuto a che fare con lo Stato, in tutti i suoi aspetti».

Nel 1993 inizia a collaborare con il magistrato Cafiero De Raho, pezzo storico della Procura antimafia napoletana, da qualche mese alla guida della Dda di Reggio Calabria. Da allora ha riempito centinaia di verbali, raccontando dall’interno il funzionamento del più potente cartello criminale della Campania: «Siamo in realtà più legati a Cosa Nostra che alla Camorra», racconta. «Abiamo una sorta di doppia affiliazione».

Capacità imprenditoriale, ferocia militare, presenza aggressiva sui territori controllati: i clan originari di Casal di Principe non si sono mai fermati dall’inizio degli anni Ottanta a oggi. Prima hanno vinto la loro battaglia interna con i cutoliani, grazie a una fitta rete di alleanze e a una potenza di fuoco senza uguali. Poi hanno conquistato il consenso politico: «Controllavamo tutti i comuni del casertano», spiega Schiavone.

E alla fine hanno messo in piedi una macchina infernale in grado di riciclare e moltiplicare i tantissimi soldi del narcotraffico e delle armi. Due le parole chiavi: cemento e monnezza. Sul territorio controllano le cave, per produrre il cemento usato negli appalti guadagnati grazie alla politica. Prezzi aggressivi, estorsioni, minacce e agguati per chi non si adegua. Poi quelle buche scavate per estrarre sabbia sono diventate la tomba per i rifiuti più pericolosi.

Si sa tutto da almeno quindici anni. Ma non è accaduto nulla

Se un bidone di sostanze tossiche costava, negli anni Ottanta e Novanta, qualche milione per essere smaltito senza impatto per l’ambiente, per gettarlo in una cava i casalesi chiedevano molto meno della metà: «Cinquecento mila lire se era roba nucleare, meno per i rifiuti pericolosi», ha raccontato Schiavone.

Lo scorso luglio l’ex boss diventato collaboratore nel 1993 ha terminato gli arresti domiciliari. Ha deciso a quel punto di raccontare il sistema rifiuti. Con una frase che ripete ossessivamente: «In quelle terre moriranno tutti, moriranno milioni di persone».

Queste stesse parole le aveva già pronunciate davanti a una commissione parlamentare il 7 ottobre 1997. Fu chiamato dall’onorevole Massimo Scalia, che presiedeva il gruppo di deputati e senatori incaricati di approfondire le ecomafie. Tutto secretato, perché le indagini – si disse – erano ancora in corso. Di quella sua deposizione non trapelò mai nulla, neanche un parola. Quando alla fine dell’estate scorsa in due interviste (a Sky tg 24 e al Fatto quotidiano) Schiavone spiegò che tutto era noto fin dalla fine degli anni Novanta, che aveva fornito tutti i documenti alla Commissione sul ciclo dei rifiuti – «Hanno le targhe dei camion che trasportavano i fusti tossici», ripeteva – qualcosa è scattato nell’opinione pubblica forse troppo impigrita da una cronaca politica stanca.

Nei giorni successivi alla sua intervista, a Casal di Principe centinaia di persone – cittadini comuni, famiglie, comitati – si sono riunite spontaneamente davanti a uno dei sversatoi indicati da Schiavone, nei pressi del campo sportivo. Perché c’era un altro fattore fino ad oggi rimasto nascosto: è vero, lo Stato sa, conosce i luoghi indicati dai diversi collaboratori. Ma tutto è rimasto senza una risposta, senza bonifiche. Senza una vera informazione per i cittadini.

Gli abitanti di Casal di Principe, che ricordavano il volto di Schiavone come quello di un boss temuto e rispettato, sentendo le parole “moriranno tutti” hanno avuto poi l’immagine vivida del volto vero dei clan. Non si muore solo per una pallottola o per una corda avvolta attorno al collo. Muoiono tutti, bambini, donne, senza distinzione di affiliazione. Si muore lentamente, e possibilmente in silenzio.

Quando ha iniziato a raccontare, Carmine Schiavone disse che l’indignazione sarebbe finita in otto giorni, «il tempo del lutto e della meraviglia». Sono passati due mesi, la sua audizione del 1997 è stata desecretata: la stampa questa volta non sembra intenzionata a mollare una storia “mordi e fuggi”. Troppe le domande che martellano la popolazione delle terre avvelenate: chi sono stati i complici? Che volto hanno gli imprenditori che hanno usato il sistema dei casalesi? E soprattutto: come ci salveremo?

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