Nessuno,
fino ad oggi, ha contato i morti. Migliaia, probabilmente, in una
terra che una volta chiamavano felix. Inizia dalla provincia di
Latina, e scende fino alle porte di Salerno. Al centro c’è una
città di poco più di ventimila abitanti, Casal
di Principe, dove due o
tre famiglie hanno gestito un sistema criminale lungo trent’anni. La chiamano Gomorra questa terra, ma di biblico ha ben poco. È
stato lo sversatoio delle
industrie dell’intero Paese,
ospitando – di tanto in tanto – anche i peggiori veleni arrivati
dal nord Europa.
Fatti conosciuti, studiati, analizzati.
Non
più un segreto, almeno dal 1993, quando la procura di Napoli, con
l’inchiesta Adelphi, raccolse le prime prove dell’immenso,
criminale, aberrante traffico di rifiuti verso le campagne tra il Sud
del Lazio e la provincia di Caserta.
Eppure le parole di Carmine
Schiavone – uno dei
primissimi collaboratori di giustizia dei casalesi – stanno creando
da un paio di mesi un piccolo tornado.
Oggi
ha settant’anni. Spiega: «Per
vent’anni ho studiato, per altri trenta ho fatto il mafioso, e per
altri venti ho avuto a che fare con lo Stato, in tutti i suoi
aspetti».
Nel 1993 inizia a
collaborare con il magistrato Cafiero De Raho,
pezzo storico della Procura antimafia napoletana, da qualche mese
alla guida della Dda di Reggio Calabria. Da allora ha riempito
centinaia di verbali, raccontando dall’interno il funzionamento del
più potente cartello criminale della Campania: «Siamo
in realtà più legati a Cosa Nostra che alla Camorra»,
racconta. «Abiamo
una sorta di doppia affiliazione».
Capacità
imprenditoriale, ferocia militare, presenza aggressiva
sui territori controllati: i clan originari di Casal di Principe non
si sono mai fermati dall’inizio degli anni Ottanta a oggi. Prima
hanno vinto la loro battaglia interna con i cutoliani, grazie a una
fitta rete di alleanze e a una potenza di fuoco senza uguali. Poi
hanno conquistato il consenso politico: «Controllavamo
tutti i comuni del casertano»,
spiega Schiavone.
E alla fine hanno messo in piedi una macchina
infernale in grado di riciclare e moltiplicare i tantissimi soldi del
narcotraffico e delle armi.
Due
le parole chiavi: cemento
e monnezza. Sul
territorio controllano le cave, per produrre il cemento usato negli
appalti guadagnati grazie alla politica. Prezzi aggressivi,
estorsioni, minacce e agguati per chi non si adegua. Poi quelle buche
scavate per estrarre sabbia sono diventate la
tomba per i rifiuti più pericolosi.
Si sa tutto da almeno quindici anni. Ma non è accaduto nulla
Se
un bidone di sostanze tossiche costava, negli anni Ottanta e Novanta,
qualche milione per essere smaltito senza impatto per l’ambiente,
per gettarlo in una cava i casalesi chiedevano molto meno della metà:
«Cinquecento
mila lire se era roba nucleare, meno per i rifiuti pericolosi»,
ha raccontato Schiavone.
Lo
scorso luglio l’ex boss diventato collaboratore nel 1993 ha
terminato gli arresti domiciliari. Ha deciso a quel punto di
raccontare il sistema rifiuti. Con una frase che ripete
ossessivamente: «In
quelle terre moriranno tutti, moriranno milioni di persone».
Queste stesse parole le aveva già pronunciate davanti a una
commissione parlamentare il 7 ottobre 1997. Fu chiamato
dall’onorevole Massimo
Scalia, che presiedeva il
gruppo di deputati e senatori incaricati di approfondire le ecomafie.
Tutto secretato, perché le indagini – si disse – erano ancora in
corso. Di quella sua deposizione non trapelò mai nulla, neanche un
parola.
Quando
alla fine dell’estate scorsa in due interviste (a Sky tg 24 e al
Fatto quotidiano) Schiavone spiegò che tutto era noto fin dalla fine
degli anni Novanta, che aveva fornito tutti i documenti alla
Commissione sul ciclo dei rifiuti – «Hanno
le targhe dei camion che trasportavano i fusti tossici»,
ripeteva – qualcosa è scattato nell’opinione pubblica forse
troppo impigrita da una cronaca politica stanca.
Nei giorni
successivi alla sua intervista, a Casal di Principe centinaia di
persone – cittadini comuni, famiglie, comitati – si sono riunite
spontaneamente davanti a uno dei sversatoi indicati da Schiavone, nei
pressi del campo sportivo. Perché c’era un altro fattore fino ad
oggi rimasto nascosto: è vero, lo Stato sa, conosce i luoghi
indicati dai diversi collaboratori. Ma tutto è rimasto senza una
risposta, senza bonifiche. Senza una vera informazione per i
cittadini.
Gli
abitanti di Casal di Principe, che ricordavano il volto di Schiavone
come quello di un boss temuto e rispettato, sentendo le parole
“moriranno tutti” hanno avuto poi l’immagine vivida del volto
vero dei clan. Non si muore solo per una pallottola o per una corda
avvolta attorno al collo. Muoiono tutti, bambini, donne, senza
distinzione di affiliazione. Si muore lentamente, e possibilmente in
silenzio.
Quando
ha iniziato a raccontare, Carmine Schiavone disse che l’indignazione
sarebbe finita in otto giorni, «il
tempo del lutto e della meraviglia».
Sono passati due mesi, la sua audizione del 1997 è stata
desecretata: la stampa questa volta non sembra intenzionata a mollare
una storia “mordi e fuggi”. Troppe le domande che martellano la
popolazione delle terre avvelenate: chi sono stati i complici? Che
volto hanno gli imprenditori che hanno usato il sistema dei casalesi?
E soprattutto: come ci salveremo?