Yassine
El Baghdadi, 17 anni, è morto il 17 novembre 2009 nel carcere
minorile Meucci di Firenze, dove era recluso da tre mesi per un
tentativo di furto. Non ce la faceva più e ha deciso di farla
finita: nel momento della doccia, ha bagnato
e arrotolato un lenzuolo, l’ha legato stretto alle sbarre della
finestra del bagno, è salito su una scarpiera, si è legato il
lenzuolo al collo, si è lasciato cadere ed è morto impiccato. La
sua era una storia di solitudine e disagio: «Se
Yassine fosse stato italiano e avesse avuto alle spalle una “normale
famiglia italiana”, non sarebbe mai finito in carcere»,
commentarono i volontari di Altro Diritto onlus, che da dieci anni
frequentavano il Meucci.
Anche Francesco Pasquini, 77 anni, si è
ucciso impiccandosi con un lenzuolo, nel carcere di Lanciano, il 3
febbraio 2013. Yassine e Francesco sono il più giovane e il più
anziano tra i 306 detenuti suicidi nelle prigioni italiane in meno di
cinque anni, dal 1 gennaio 2009. Di
questi, 103 erano stranieri e 203 italiani; 7 le donne, di cui 4
straniere.
Secondo l’Osservatorio
permanente sulle morti in carcere, i detenuti suicidi sono per la
maggior parte giovani: 4 avevano meno di 20 anni, 84 tra 21 e 30
anni, 101 un’età compresa tra i 31 e i 40 anni, 68 tra i 41 e i 50
anni, 34 tra i 51 e i 60 anni, 12 tra i 61 e i 70 anni e 3 oltre i
71.
L’impiccagione è risultato il “metodo” utilizzato con
maggiore frequenza per togliersi la vita (222 casi), seguito
dall’asfissia con il gas delle bombolette da camping in uso ai
detenuti (59). Più rari i casi di avvelenamento con farmaci (16),
soffocamento con sacchi di plastica (5) e dissanguamento (4). Tutte e
7 le donne si sono suicidate impiccandosi.
In quali carceri si è
registrato il maggior numero di suicidi (10)? Non a caso, a
Sollicciano (Firenze) e Poggioreale (Napoli), che sono anche quelle
che soffrono maggiormente il sovraffollamento.
I numeri
dell’Osservatorio permanente sulle morti in carcere parlano di un
forte malessere “al di là del muro”, dove vivono 100 mila
persone, tra carcerati e carcerieri. Un mondo in cui dovrebbero farsi
strada la rieducazione, la legalità, il rispetto della dignità, per
restituire alla società persone libere e responsabili. Per produrre,
in definitiva, più sicurezza. Questo è il senso della pena
detentiva, il significato imposto dalla Costituzione e dalle
successive scelte riformatrici.
Eppure, la realtà è lontana anni
luce. Il sistema carcere sembra aver gettato la spugna sua
possibilità di trattare i detenuti con dignità e di
“risocializzarli”. Continua a considerare la chiave il simbolo
della sicurezza, ma più sono le mandate, più sale la recidiva.
Il
carcere “chiuso”, senza progetti di recupero sociale, diventa un
“cimitero dei vivi”, ma soprattutto è patogeno e criminogeno:
produce il 70% dei recidivi in circolazione. Tutto ciò al prezzo di
116,68 euro al giorno per ogni detenuto.
Oggi i detenuti sono quasi 65 mila, negli ultimi 20 anni sono più che raddoppiati
Le
gravi condizioni igieniche e di vivibilità, peggiorate dal cronico
sovraffollamento – 147
detenuti per ogni 100 posti, tra i Paesi del Consiglio d’Europa
fanno peggio solo Serbia e Grecia –,
hanno trasformato la pena in tortura legalizzata: i cosiddetti ospiti
sono costretti a vivere in celle anguste, con infiltrazioni d’acqua,
umide, buie; fanno i turni per stare in piedi e sgranchirsi le gambe,
mangiano a un passo dal water. In alcuni casi, dormono a terra su
materassini di gommapiuma fetidi e rosicchiati dai topi, tra
scarafaggi e insetti di vario genere.
C’è
un dato su cui riflettere. Secondo il Centro
Studi di Ristretti Orizzonti, «i
suicidi sono cresciuti
del
300%»
dagli anni Sessanta ai giorni nostri. I motivi? Quarant’anni fa, «i
detenuti erano prevalentemente criminali professionisti (che
mettevano in conto di poter finire in carcere ed erano preparati a
sopportarne i disagi), mentre oggi buona parte della popolazione
detenuta è costituita da persone provenienti dall’emarginazione
sociale (immigrati, tossicodipendenti, malati mentali), spesso
fragili psichicamente e privi delle risorse caratteriali necessarie
per sopravvivere al carcere».
Sul
tema è intervenuto anche il Papa il 23 ottobre incontrando i
cappellani delle carceri italiane. Francesco, raccontando che spesso
la domenica telefona ai detenuti di Buenos Aires, ha detto: «È
facile
punire i più deboli, mentre i pesci grossi nuotano liberamente nelle
acque».
«Papa
Francesco ha ragione, il nostro è un sistema penale classista», ha
commentato Patrizio Gonnella, presidente dell'associazione Antigone.
«Non è un carcere per ricchi. In carcere troviamo i più poveri,
due detenuti su tre fanno parte del sottoproletariato urbano. C’è
chi sta dentro perché vende cd contraffatti».
Aggiunge
Gonnella: «Nelle
galere italiane abbiamo tassi di alfabetizzazione e malattie (Tbc e
scabbia) che ci riportano all’Italia del secondo dopoguerra e
dimostrano quanto detto dal Papa. Ventidue anni fa, i detenuti erano
31.053. 12 anni fa erano 55.393. Oggi sono 64.798. Il 35,19% è
composto da stranieri. Il 39,44% ha un’imputazione o condanna per
violazione della legge sulle droghe. Il 53,41% è dentro per reati
contro il patrimonio. Solo il 10,2% ha una condanna o un’imputazione
di mafia e dintorni. 24.364 detenuti (il 60,45% delle persone
condannate) deve scontare una pena residua inferiore ai 3 anni. Sono
647 i detenuti in possesso di una laurea, 22.117 quelli con la
licenza di scuola media inferiore, 789 gli analfabeti».