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domenica 23 marzo 2025
 
Ecatombe nel Mediterraneo
 

Morirono annegati in 700, condannato lo scafista

15/12/2016  Il tribunale di Catania ha inflitto 18 anni di carcere al "comandante" tunisino che guidava la carretta inabissatasi l'aprile del 2015 al largo delle coste libiche. Vi erano stipati fino all'inverosimile oltre settecento migranti, tra cui molte donne e bambini. La più grande tragedia dell'immigrazione in Mediterraneo. Ma i drammi di chi fugge iniziano ben prima.

Condannato a 18 anni per omicidio colposo plurimo, naufragio e favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. L’ultima sua fatale manovra, in preda all’alcol,  fece cozzare il barcone stipato all’inverosimile di uomini, donne e bambini, contro un mercantile portoghese che era sopraggiunto per portare soccorso. Il conseguente affondamento dello scafo provocò oltre settecento  vittime. Era il 18 aprile 2015:  una data che sarà ricordata come la più grande tragedia  dell’immigrazione in Mediterraneo.  

Il tunisino Mohamed Alì Malek, 27 anni, il 'capitano',  è stato riconosciuto colpevole  dal tribunale di  Catania, che ha condannato a cinque anni di reclusione  anche il suo “mozzo”, il siriano Mahmud Bikhit, di 25 anni.  Dal naufragio, che avvenne a 180 chilometri a sud di Lampedusa, si salvarono soltanto 28 persone. Tra loro anche due minorenni che si sono costituti parte civile.  

    Gli imputati si sono sempre proclamati innocenti, sostenendo di essere dei semplici 'passeggeri' come gli altri migranti.  Secondo l'accusa il naufragio "fu determinato da una serie di concause, tra cui il sovraffollamento dell'imbarcazione e le errate manovre compiute dal 'comandante' Malek ubriaco.  Sotto coperta, infatti, intrappolati  nelle stive chiuse stavano centinaia di migranti tra cui moltissimi bambini e donne.

    Dopo il recupero del relitto, a quasi 400 metri di profondità, ad opera della Marina Militare nell’estate scorsa, erano stati contati nello scafo più di 600 cadaveri a cui d si devono aggiungere le 169 salme ritrovate attorno al relitto. I testimoni  del recupero hanno affermato che nel ventre  della carretta erano ammassate cinque persone in un metro quadro, e decine erano state  stipate persino nella sala macchine. La loro morte fu terribile: quando l’imbarcazione colò a picco, fecero la fine dei topi, morendo annegati o per asfissia.  

   Si tratta di africani di cui, per la stragrande maggioranza dei casi, non si conosce neanche l’identità. Né mai la si potrà più conoscere. Si è potuto finora risalire, grazie ai documenti ritrovati (tra cui pagelle scolastiche),  alle nazionalità: sono cittadini provenienti da Etiopia, Eritrea, Bangladesh, Sudan, Somalia, Mali, Gambia, Senegal, Costa D’Avorio, Guinea Bissau e Guinea Conakry.  Caduti “ignoti” dei conflitti dimenticati, delle guerre civili, delle carestie e della povertà endemica che ammorbano importanti aree del continente africano, causando le grandi ondate migratorie di questi ultimi anni e che dal 1980 ha visto triplicare il fenomeno (da 5,5 milioni di migranti extracontinentali ai 16 milioni del 2015).  

Viaggi di “disperati” che ancor prima di approdare sulle coste libiche o degli altri Paesi africani che s’affacciano sul Mediterraneo, causano enormi rischi, violenze e  morti. Proprio nel recente dossier Caritas (n.21 del dicembre 2016) intitolato “Divieto d’accesso, flussi migratori e diritti negati” si legge: “Una ricerca condotta tra marzo e giugno 2016 in tre centri d’accoglienza a Roma, Torino e Asti sui rischi del viaggio irregolare mostra che l’87% dei casi studiati è stato vittima o ha assistito ad abusi fisici e il 69% ha assistito ad episodi di morte (North Africa Mixed Migration Hub, 2016). Nonostante questo, tra le persone intervistate non coscienti dei rischi del viaggio (due terzi del totale degli intervistati), il 51% dichiara che avrebbe comunque optato per tale rotta migratoria".

 

 

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