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lunedì 07 ottobre 2024
 
 

Venezia ha la febbre asiatica

08/09/2012  Un'edizione sotto tono della Mostra del cinema, con un discutibile vincitore. Tanti applausi per i "vecchi leoni", qualche delusione illustre e poche novità.

C'è stato un momento davvero divertente, durante la cerimonia di premiazione di Venezia 69: quando Laetitia Casta, impacciata ma sorridente, si è alzata dalla tribunetta della giuria per dire che erano stati scambiati due riconoscimenti. Trambusto, risate. Poi il tedesco Ulrich Seidl se ne è tornato in platea col Premio Speciale per il suo Paradies: glaube (troppo per un film sull'ossessione religiosa volgarmente provocatorio, nella cui scena forte la protagonista si masturba con un crocifisso) mentre l'americano Philip Seymour Hoffman stringeva giustamente in mano il Leone d'argento per la regia assegnato a Paul Thomas Anderson per The Master.


Il secondo alloro per questo bel film dopo la Coppa Volpi per le interpretazioni maschili assegnata ex-aequo ai due protagonisti: lo stesso Hoffman e Joaquin Phoenix. Contenti gli italiani per i due premi minori inaspettatamente portati a casa dal film E' stato il figlio: miglior contributo tecnico per la fotografia a Daniele Ciprì e miglior attore emergente a Fabrizio Falco. Accettabili perfino la Coppa Volpi della miglior attrice all'israeliana Hadas Yaron per Fill the void (storia delicata  sull'integralismo ebraico) e l'Osella per la sceneggiatura al francese Olivier Assayas per Après mai (rivisitazione nostalgico-amara del '68). Impossibile digerire, invece, il Leone d'oro a Pietà del coreano Kim Ki-duc. La solita snobistica bizzarria da giuria festivaliera. Possiamo sbagliarci, naturalmente: provate a vederlo. Se ci riuscite.

Applausi, ma neppure tanti. Fischi, spesso meritati. Polemiche, perché un festival che non riesca a sollevarne non può neanche essere definito tale. Qua e là nelle varie sezioni ufficiali, qualche buona pellicola. Ma nel complesso un'edizione sotto tono quella della 69° Mostra del cinema di Venezia, che si conclude stasera con la proclamazione del Leone d'oro.


Se passerà alla storia sarà per un evento inatteso, tanto casuale quanto denso di significati: l'incontro, all'imbarcadero dell'Excelsior, tra il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano (a Mestre per un convegno ma capace di trovare il tempo per un salto al Lido in omaggio alla sua passione cinefila: “Sono qui per sostenere il cinema italiano”, le sue parole) e il divo statunitense Robert Redford (per la prima volta alla Mostra per prentare fuori concorso The company you keep, suo nuovo bellissimo film). Due protagonisti, uno della politica e l'altro della settima arte, non proprio di primo pelo eppure ancora sulla breccia per difendere, ciascuno a suo modo, quello che, con termine desueto, veniva una volta chiamato impegno civile. Una stretta di mano non formale, quella tra i due, e un parlottare fitto fitto che ha rincuorato Paolo Baratta e Alberto Barbera, vertici operativi della Mostra, per poi far scatenare fotografi e reporter quasi immalinconiti dalla routine festivaliera.

Se l'accoppiata Napolitano-Redford ha fatto registrare il massimo all'applausometro della Mostra, c'è da dire che altri grandi del passato sono  stati degnamente celebrati sul red carpet: l'intramontabile Ermanno Olmi, il novantenne Francesco Rosi (Leone d'oro alla carriera) e poi la coppia formata da Claudia Cardinale e Michael Lonsdale, protagonisti del teatrale O Gebo e a sombra  dell'ultracentenario Manoel de Oliveira. 

Gridolini e svenimenti di nugoli di ragazzine hanno invece accompagnato il passaggio di divi imberbi del calibro di Zac Ephron (reso celebre dalla serie High School Musical e al Lido convincente interprete di At any price) e Selena Gomez (starlette dei canali televisivi Disney ma ingiudicabile come protagonista del deludente Spring breakers). Insomma, popolarità a prescindere se non addirittura malgrado i film selezionati.

In tema di fiaschi, in mezzo ai tanti carneadi invitati giusto per fare numero, vanno sottolineate le delusioni provocate a critici e addetti ai lavori da alcuni maestri, che erano stati annunciati in pompa magna. Per tutti, stessa colpa: di fronte al fisiologico calo d'ispirazione, non hanno saputo far altro che ripetersi con vuota quanto formale perizia.


L'impassibile giapponese Takeshi Kitano ha proposto (con Outrage beyond) la solita litania di sbudellamenti a opera di mafiosi della Yakuza. Lo statunitense Brian De Palma, onusto di Oscar e di trionfi al botteghino, si è concesso con Passion l'ennesimo thriller patinato, talmente scontato da mortificare le interpretazioni di due dive in ascesa come Noomi Rapace e Rachel McAdams. 

Per non parlare poi del più celebrato di tutti (almeno dopo la morte di Stanley Kubrick): il misterioso e sdegnoso Terrence Malick non ha neppure messo piede in Laguna, ma è stato meglio per lui perché il suo To the wonder ha fatto storcere il naso ai più. Va bene incantare lo sguardo con la meraviglia di paesaggi infiniti attraversati da mandrie di cavalli e di bufali, ma perché pretendere di racchiudere in una criptica storia di coppia tutti i misteri del creato? Quasi che girare “alla Malick” sia ormai sinonimo di capolavoro assoluto, mentre al povero spettatore basterebbe magari solo vedere un buon film.

Un merito, tuttavia, Malick lo ha avuto ed è stato quello di far emergere tra le righe del festival un tema dominante. In tempi di crisi profonda, a tutte le latitudini si fa sentire prepotente un bisogno d'amore, di valori che vadano oltre il consumismo e il denaro. Una fame morale, un afflato di spiritualità che attraversa tante pellicole che non potevano passare inosservate alla Mostra. In senso positivo o negativo.


Tipico esempio da festival quello del film coreano Pietà. Cineasta elegante non nuovo a immagini choc e a trame ingarbugliate, Kim Ki-duc porta sullo schermo una feroce parabola di abiezione e redenzione. Al centro della vicenda un bel ragazzone dall'insospettabile cinismo: vive tra le catapecchie alla periferia di Seul, nuova capitale del consumismo elettronico, facendo l'esattore per un invisibile strozzino. Se il poveraccio di turno, rintanato nella sua bottega di artigiano, non ha di che pagare lui gli mozza una mano, gli spranga una gamba, magari lo mutila semplicemente di un dito: ciò che serve per poter incassare la polizza assicurativa che ha fatto sottoscrivere a ciascun debitore come garanzia. 

Un lavoretto niente male finché, a scuoterlo dalla routine, arriva una donna ancora bella che, muta e sottomessa, comincia a braccarlo... Per farla breve, dopo una serie di prove di inenarrabile ripugnanza, il duro si ritroverà il cuore intenerito dalla scoperta dall'amore materno, quello sempre agognato e che spiegherebbe la sua turpitudine col dolore di un abbandono subito ancora in fasce. Peccato che, provocata la crepa, la misteriosa donna la sfrutterà per affondarci dentro la lama della vendetta. 

Film a tratti irritante a tratti insostenibile, Pietà (grazie anche a un furbo richiamo al celebre gruppo marmoreo di Michelangelo) è stato capace di far gridare al miracolo il solito manipolo di critici festivalieri.

Dalla stilizzata crudeltà asiatica si passa all'ambiguità tutta italiana con Bella addormentata di Marco Belloccchio, atteso film sul sofferto caso di eutanasia della giovane Eluana Englaro, ancora vivo nella memoria e nelle emozioni di tutti noi. Le polemiche, inevitabili, erano nell'aria ma la cosa inaccettabile è che molti di coloro che le hanno sollevate (a cominciare dall'allora ministro della sanità Maurizio Sacconi) lo abbiano fatto senza neppure aver visto la pellicola. Grave errore, perché di un film non bisogna aver paura: lo si può criticare, stigmatizzare oppure condividerlo in parte. Mai però demonizzarlo.


Anche perché, va detto, Bellocchio ha girato un bel film, come se ne sono visti pochi in Laguna. Merito anche delle intense interpretazioni di attori (Toni Servillo, Isabelle Huppert, Alba Rohrwacher, Michele Riondino, Maya Sansa, il figlio Piergiorgio del regista) che si calano nei panni di personaggi che, mentre in Tv e sui giornali si consuma il caso Englaro, vivono di riflesso la drammaticità di situazioni ad esso assimilabili. 

C'è il senatore del Pdl richiamato a Roma per votare la legge ad hoc che vorrebbe far passare, per puro opportunismo politico, il premier Berlusconi. Solo che lui sarebbe contrario anche per questioni assai intime. C'è la di lui figlia, attivista di un gruppo per la vita, che va a Udine per manifestare davanti alla casa di cura dove si sta spegnendo Eluana, spinta però anche lei da personalissime motivazioni. Contemporaneamente, c'è un'attrice un dì famosa che vive reclusa nella sua bella magione pregando e lottando affinché invece sua figlia, pure lei in coma vegetativo, possa risvegliarsi. Peccato che, infervorata dalla missione, si disinteressi sia del marito che dell'altro figlio. E poi c'è un giovane medico, non ancora incallito da anni di professione, che s'imbarca nella redenzione di una tossicodipendente. Ogni brandello di storia può rispecchiare un diverso punto di vista, può essere stimolo di riflessione sia personale che collettiva. 

Belloccchio, certo, non ha mai fatto mistero delle sue idee. Che un laico militante come lui abbia cosparso la storia di dubbi, lasciando allo spettatore libertà di giudizio su un tema delicato come la fine vita, è già cosa rimarchevole. Se poi si volesse vedere il bicchiere mezzo pieno, oltre alla strenua difesa della vita fatta dal giovane medico, ci sono le parole della dichiarazione di voto che il riluttante senatore non farà in tempo a pronunciare in aula ma che, nel buio di una notte insonne, ascoltiamo preparare e soppesare. Tanto dolore e tanta lacerante incertezza sono segno di profondo rispetto morale.

Se Kim Ki-duc e Bellocchio hanno diviso critici e spettatori, c'è stato però un cineasta che ha saputo raccogliere consensi ricevendo subito il Leone d'oro dei pronostici. L'americano Paul Thomas Anderson (già talentuoso regista di Magnolia e Il petroliere) ha rapito la platea con un altro epico racconto a stelle e strisce.



The master narra l'ascesa, nella fragile America del secondo dopoguerra, di un moderno guru e della sua setta religiosa. Il personaggio, magistralmente interpretato da Philip Seymour Hoffman, ricorda assai il Ron Hubbard di Scientology, che oggi vanta nel mondo milioni di adepti (a cominciare da tipi famosi come Tom Cruise e John Travolta). Ma la pellicola va oltre. Indaga sul mefistofelico rapporto tra maestro e allievo (impersonato in modo meravigliosamente ambiguo da Joaquin Phoenix), sulle ragioni più intime e profonde delle certezze dell'uno e delle paure dell'altro. Sul fatto che, alla fine, ognuno abbia bisogno dell'altro per esistere. Un meraviglioso duello di parole, sensazioni, emozioni girato in un incredibile formato a 70 millimetri che esplora ogni ruga, ogni ciglio, ogni sguardo dei protagonisti come avrebbe fatto un Sergio Leone dell'anima. Parabola sulla fragilità dell'uomo quando smarrisce la vera fede in Dio, The Master è il film più bello visto al Lido.

A consolazione del cinema italiano, la sorprendente freschezza con cui a fine festival Francesca Comencini ha saputo raccontare, in Un giorno speciale, una storia d'amore tra adolescenti: lui autista al primo giorno di lavoro, lei attricetta concupita da un politico. Lui è Filippo Schicchitano (quello lanciato da Scialla!), lei l'esordiente Giulia Valentini.Deliziosi. C'è da scommetterci, ne sentiremo parlare ancora.

 
 
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