C'è stato
un momento davvero divertente, durante la cerimonia di premiazione di Venezia
69: quando Laetitia Casta, impacciata ma sorridente, si è alzata dalla
tribunetta della giuria per dire che erano stati scambiati due riconoscimenti.
Trambusto, risate. Poi il tedesco Ulrich Seidl se ne è tornato in platea col
Premio Speciale per il suo Paradies: glaube (troppo per un film
sull'ossessione religiosa volgarmente provocatorio, nella cui scena forte la
protagonista si masturba con un crocifisso) mentre l'americano Philip Seymour
Hoffman stringeva giustamente in mano il Leone d'argento per la regia assegnato
a Paul Thomas Anderson per The Master.
Il secondo alloro per questo bel
film dopo la Coppa Volpi per le interpretazioni maschili assegnata ex-aequo ai
due protagonisti: lo stesso Hoffman e Joaquin Phoenix. Contenti gli italiani
per i due premi minori inaspettatamente portati a casa dal film E' stato il
figlio: miglior contributo tecnico per la fotografia a Daniele Ciprì e
miglior attore emergente a Fabrizio Falco. Accettabili perfino la Coppa Volpi
della miglior attrice all'israeliana Hadas Yaron per Fill the void (storia
delicata sull'integralismo ebraico) e
l'Osella per la sceneggiatura al francese Olivier Assayas per Après mai (rivisitazione
nostalgico-amara del '68). Impossibile digerire, invece, il Leone d'oro a Pietà
del coreano Kim Ki-duc. La solita snobistica bizzarria da giuria
festivaliera. Possiamo sbagliarci, naturalmente: provate a vederlo. Se ci
riuscite.
Applausi, ma
neppure tanti. Fischi, spesso meritati. Polemiche, perché un festival che non
riesca a sollevarne non può neanche essere definito tale. Qua e là nelle varie
sezioni ufficiali, qualche buona pellicola. Ma nel complesso un'edizione sotto
tono quella della 69° Mostra del cinema di Venezia, che si conclude stasera con la proclamazione del Leone d'oro.
Se passerà alla storia sarà per un evento
inatteso, tanto casuale quanto denso di significati: l'incontro,
all'imbarcadero dell'Excelsior, tra il presidente della Repubblica Giorgio
Napolitano (a Mestre per un convegno ma capace di trovare il tempo per un
salto al Lido in omaggio alla sua passione cinefila: “Sono qui per sostenere il
cinema italiano”, le sue parole) e il divo statunitense Robert Redford
(per la prima volta alla Mostra per prentare fuori concorso The company you
keep, suo nuovo bellissimo film). Due protagonisti, uno della politica e
l'altro della settima arte, non proprio di primo pelo eppure ancora sulla
breccia per difendere, ciascuno a suo modo, quello che, con termine desueto,
veniva una volta chiamato impegno civile. Una stretta di mano non formale,
quella tra i due, e un parlottare fitto fitto che ha rincuorato Paolo Baratta e
Alberto Barbera, vertici operativi della Mostra, per poi far scatenare
fotografi e reporter quasi immalinconiti dalla routine festivaliera.
Se l'accoppiata
Napolitano-Redford ha fatto registrare il massimo all'applausometro della
Mostra, c'è da dire che altri grandi del passato sono stati degnamente celebrati sul red carpet:
l'intramontabile Ermanno Olmi, il novantenne Francesco Rosi
(Leone d'oro alla carriera) e poi la coppia formata da Claudia Cardinale
e Michael Lonsdale, protagonisti del teatrale O Gebo e a sombra dell'ultracentenario Manoel de Oliveira.
Gridolini e svenimenti di nugoli di ragazzine hanno invece accompagnato il
passaggio di divi imberbi del calibro di Zac Ephron (reso celebre dalla
serie High School Musical e al Lido convincente interprete di At any
price) e Selena Gomez (starlette dei canali televisivi Disney ma
ingiudicabile come protagonista del deludente Spring breakers). Insomma,
popolarità a prescindere se non addirittura malgrado i film selezionati.
In tema
di fiaschi, in mezzo ai tanti carneadi invitati giusto per fare numero, vanno
sottolineate le delusioni provocate a critici e addetti ai lavori da alcuni
maestri, che erano stati annunciati in pompa magna. Per tutti, stessa colpa: di
fronte al fisiologico calo d'ispirazione, non hanno saputo far altro che ripetersi
con vuota quanto formale perizia.
L'impassibile giapponese Takeshi Kitano
ha proposto (con Outrage beyond) la solita litania di sbudellamenti a opera di mafiosi della Yakuza. Lo statunitense Brian De Palma, onusto di
Oscar e di trionfi al botteghino, si è concesso con Passion l'ennesimo
thriller patinato, talmente scontato da mortificare le interpretazioni di due
dive in ascesa come Noomi Rapace e Rachel McAdams.
Per non
parlare poi del più celebrato di tutti (almeno dopo la morte di Stanley
Kubrick): il misterioso e sdegnoso Terrence Malick non ha neppure messo
piede in Laguna, ma è stato meglio per lui perché il suo To the wonder ha
fatto storcere il naso ai più. Va bene incantare lo sguardo con la meraviglia
di paesaggi infiniti attraversati da mandrie di cavalli e di bufali, ma perché
pretendere di racchiudere in una criptica storia di coppia tutti i misteri del
creato? Quasi che girare “alla Malick” sia ormai sinonimo di capolavoro
assoluto, mentre al povero spettatore basterebbe magari solo vedere un buon
film.
Un merito,
tuttavia, Malick lo ha avuto ed è stato quello di far emergere tra le righe del
festival un tema dominante. In tempi di crisi profonda, a tutte le latitudini
si fa sentire prepotente un bisogno d'amore, di valori che vadano oltre il
consumismo e il denaro. Una fame morale, un afflato di spiritualità che
attraversa tante pellicole che non potevano passare inosservate alla Mostra. In
senso positivo o negativo.
Tipico esempio da festival quello del film coreano Pietà.
Cineasta elegante non nuovo a immagini choc e a trame ingarbugliate, Kim
Ki-duc porta sullo schermo una feroce parabola di abiezione e redenzione.
Al centro della vicenda un bel ragazzone dall'insospettabile cinismo: vive tra
le catapecchie alla periferia di Seul, nuova capitale del consumismo
elettronico, facendo l'esattore per un invisibile strozzino. Se il poveraccio
di turno, rintanato nella sua bottega di artigiano, non ha di che pagare lui
gli mozza una mano, gli spranga una gamba, magari lo mutila semplicemente di un
dito: ciò che serve per poter incassare la polizza assicurativa che ha fatto
sottoscrivere a ciascun debitore come garanzia.
Un lavoretto niente male
finché, a scuoterlo dalla routine, arriva una donna ancora bella che, muta e
sottomessa, comincia a braccarlo... Per farla breve, dopo una serie di prove di
inenarrabile ripugnanza, il duro si ritroverà il cuore intenerito dalla
scoperta dall'amore materno, quello sempre agognato e che spiegherebbe la sua
turpitudine col dolore di un abbandono subito ancora in fasce. Peccato che,
provocata la crepa, la misteriosa donna la sfrutterà per affondarci dentro la
lama della vendetta.
Film a tratti irritante a tratti insostenibile, Pietà (grazie
anche a un furbo richiamo al celebre gruppo marmoreo di Michelangelo) è stato
capace di far gridare al miracolo il solito manipolo di critici festivalieri.
Dalla stilizzata
crudeltà asiatica si passa all'ambiguità tutta italiana con Bella
addormentata di Marco Belloccchio, atteso film sul sofferto caso di
eutanasia della giovane Eluana Englaro, ancora vivo nella memoria e nelle
emozioni di tutti noi. Le polemiche, inevitabili, erano nell'aria ma la cosa
inaccettabile è che molti di coloro che le hanno sollevate (a cominciare
dall'allora ministro della sanità Maurizio Sacconi) lo abbiano fatto senza
neppure aver visto la pellicola. Grave errore, perché di un film non bisogna
aver paura: lo si può criticare, stigmatizzare oppure condividerlo in parte.
Mai però demonizzarlo.
Anche perché, va detto, Bellocchio ha girato un bel
film, come se ne sono visti pochi in Laguna. Merito anche delle intense
interpretazioni di attori (Toni Servillo, Isabelle Huppert, Alba Rohrwacher,
Michele Riondino, Maya Sansa, il figlio Piergiorgio del regista) che si
calano nei panni di personaggi che, mentre in Tv e sui giornali si consuma il
caso Englaro, vivono di riflesso la drammaticità di situazioni ad esso
assimilabili.
C'è il senatore del Pdl richiamato a Roma per votare la legge ad
hoc che vorrebbe far passare, per puro opportunismo politico, il premier
Berlusconi. Solo che lui sarebbe contrario anche per questioni assai intime.
C'è la di lui figlia, attivista di un gruppo per la vita, che va a Udine per
manifestare davanti alla casa di cura dove si sta spegnendo Eluana, spinta però
anche lei da personalissime motivazioni. Contemporaneamente, c'è un'attrice un
dì famosa che vive reclusa nella sua bella magione pregando e lottando affinché
invece sua figlia, pure lei in coma vegetativo, possa risvegliarsi. Peccato
che, infervorata dalla missione, si disinteressi sia del marito che dell'altro
figlio. E poi c'è un giovane medico, non ancora incallito da anni di
professione, che s'imbarca nella redenzione di una tossicodipendente. Ogni
brandello di storia può rispecchiare un diverso punto di vista, può essere
stimolo di riflessione sia personale che collettiva.
Belloccchio, certo, non ha
mai fatto mistero delle sue idee. Che un laico militante come lui abbia
cosparso la storia di dubbi, lasciando allo spettatore libertà di giudizio su
un tema delicato come la fine vita, è già cosa rimarchevole. Se poi si volesse
vedere il bicchiere mezzo pieno, oltre alla strenua difesa della vita fatta dal
giovane medico, ci sono le parole della dichiarazione di voto che il riluttante
senatore non farà in tempo a pronunciare in aula ma che, nel buio di una notte
insonne, ascoltiamo preparare e soppesare. Tanto dolore e tanta lacerante
incertezza sono segno di profondo rispetto morale.
Se Kim Ki-duc e Bellocchio hanno diviso critici e spettatori,
c'è stato però un cineasta che ha saputo raccogliere consensi ricevendo subito
il Leone d'oro dei pronostici. L'americano Paul Thomas Anderson (già
talentuoso regista di Magnolia e Il petroliere) ha rapito la
platea con un altro epico racconto a stelle e strisce.
The master narra l'ascesa, nella fragile America del secondo dopoguerra, di un moderno guru e della sua setta religiosa. Il personaggio, magistralmente interpretato da Philip Seymour Hoffman, ricorda assai il Ron Hubbard di Scientology, che oggi vanta nel mondo milioni di adepti (a cominciare da tipi famosi come Tom Cruise e John Travolta). Ma la pellicola va oltre. Indaga sul mefistofelico rapporto tra maestro e allievo (impersonato in modo meravigliosamente ambiguo da Joaquin Phoenix), sulle ragioni più intime e profonde delle certezze dell'uno e delle paure dell'altro. Sul fatto che, alla fine, ognuno abbia bisogno dell'altro per esistere. Un meraviglioso duello di parole, sensazioni, emozioni girato in un incredibile formato a 70 millimetri che esplora ogni ruga, ogni ciglio, ogni sguardo dei protagonisti come avrebbe fatto un Sergio Leone dell'anima. Parabola sulla fragilità dell'uomo quando smarrisce la vera fede in Dio, The Master è il film più bello visto al Lido.
A consolazione del cinema italiano, la sorprendente freschezza con cui a fine festival Francesca Comencini ha saputo raccontare, in Un giorno speciale, una storia d'amore tra adolescenti: lui autista al primo giorno di lavoro, lei attricetta concupita da un politico. Lui è Filippo Schicchitano (quello lanciato da Scialla!), lei l'esordiente Giulia Valentini.Deliziosi. C'è da scommetterci, ne sentiremo parlare ancora.