Forse non è un caso che la Rossa guardi indietro, tagliando il nastro del museo Casa Ferrari, che è più di tutto una corda della nostalgia. In fondo è dalla coppia Ferrari-Ascari, anno del Signore 1953, che non ci sono italiani al volante ai vertici della Formula 1 e quest’anno non ce ne saranno nemmeno in coda, perché per la prima volta dal 1969 il Mondiale parte senza contare un solo pilota italiano in griglia di partenza.
Per trovarne bisogna risalire a ritroso l’albero genealogico di Felipe Massa, alla ricerca di un avolo pugliese, ma non vale. Né vale in Formula 1 il ricorso agli oriundi, che a volte ci salvano la faccia in altri sport di tradizione altrui. Anche se Alonso parla un bellissimo italiano nato, cresciuto ed educato nelle Asturie.
Al massimo ci si consola con i collaudatori, forse con i meccanici anche perché spesso sono loro più che i piloti a decidere ormai le sorti di un Mondiale dove diventa decisivo il pit stop e più ancora l’assetto dell’ipertecnologica macchina, cui genio e sregolatezza dei piloti si devono ormai inchinare.
Non solo, più che i riflessi possono le sospensioni, più che i natali le sponsorizzazioni che pare abbiano inciso non poco sul destino di Jarno Trulli, ultimo italiano alla stregua della bollicina di sodio, lasciato a piedi a vantaggio del russo Petrov, pare meglio economicamente sostenuto. C’è crisi e non è che il costosissimo circo navighi nell’oro.
Ma i talenti non crescono sugli alberi nemmeno in Formula 1 e l’Italia non sembra un Paese per giovani nemmeno qui e chissà quanto ci vorrà per veder sbucare un Alboreto all’orizzonte, pronto a cavalcare una Ferrari, mentre altrove sbocciano, crescono e vincono piloti sempre più ragazzini. E non c’è neanche più la voce di Lucio Dalla a far rinascere «Nuvolari come rinasce il ramarro».
Elisa Chiari
Per la prima volta da che è nato (1950, primo il torinese Nino Farina su Alfa Romeo), il campionato mondiale per piloti di Formula 1 vede la disputa di ben venti gran premi. La grossa novità è un “déjà-vu”: il circus ritorna negli Stati Uniti, con il Gran Premio degli Usa, penultima prova, il 18 novembre ad Austin, Texas, una settimana prima della conclusione a San Paolo, Brasile. Bernie Ecclestone, l'inglese che a 82 anni si è autoriconfermato gran capo del circus ormai da qui all'eternità, cerca sempre nuovi palcoscenici: negli ultimi anni c'era stata l'orientalizzazione spinta del programma, fatto asiatico dalla “scoperta” di Bahrein, Abu Dabi, Corea, Malesia, Cina, Singapore, India..., più la meteora Turchia, ad affiancare progressivamente il Giappone.
Forse la resa, sul piano dell'interesse, non è stata pari alle attese, anche se i soldi sono piovuti in maniera ottima e abbondante. Gli Usa sono una sfida, nel senso che laggiù ci sono corse d'auto assai più popolari della Formula 1: non è stata ideale la scelta della rutilante Las Vegas, adesso si prova con il Texas, dove tutto è più grande, più ricco, anche più veloce. Se per il terzo anno consecutivo vince il titolo il tedesco Sebastian Vettel su Red Bull, insidiato al massimo dal compagno di scuderia (austriaca) Mark Webber australiano, c'è il rischio della noia, e amen anzi requiem per McLaren, Mercedes, Ferrari eccetera. Primo anno, la grande sorpresa. Secondo anno, la grande (sin troppo, con le corse decise nelle prove) conferma. Terzo anno, la prospettiva di solito orizzonte piatto, invaso da un sole e uno solo. E sulla Ferrari, attesa da tutti per rivitalizzare le corse, previsioni povere, e addirittura il testa-coda a pochi giorni dal via, con il “ritiro” dell'auto pensata in un primo tempo.
Gian Paolo Ormezzano
Se i tedeschi di pigliano la Ducati
Germania-Italia 2-0. Le soddisfazioni che i tedeschi sognano
di togliersi con noi nel calcio, se le prendono con gli interessi nei motori.
La doppietta ha come protagonista la Wolkswagen. Primo gol: a febbraio, in un
mese disastroso per le immatricolazioni delle auto in Europa, il colosso
tedesco è rimasto quasi indenne (-2,1% rispetto all’anno prima), aumentando in
compenso la sua quota di mercato dal 22,2% al 23,9%. Il confronto con la Fiat è
impietoso: le vendite sono crollate del 16,5% e la quota di mercato è passata
dal 7,8% al 7,2%.
Secondo gol: nonostante le smentite di prassi da parte
dell’Audi, si fa sempre più concreta l’ipotesi di un passaggio della Ducati al
marchio del gruppo Wolkswagen. E in questo caso non si può proprio parlare di
un marchio che sta risentendo della crisi: l’azienda di Borgo Panigale ha
venduto nel 2011 42 mila moto, con un fatturato prossimo ai 480 milioni di euro
e un incremento del 20% rispetto all’anno precedente. Un altro pezzo pregiato
della storia d’Italia che se ne va, insomma. Quali sono le cause? E siamo
sicuri che sia un male? Giorgio Airaudo, responsabile nazionale per il settore auto della Fiom, è
pragmatico: «Le imprese tedesche, oggettivamente, in questo momento sono quelle
che garantiscono maggiori tutele ai lavoratori. Il punto sarà verificare se
Wolkswagen intende mantenere la produzione in Italia, oppure se le interessa
solo acquisire un marchio conosciuto e ammirato in tutto il mondo. Resta un
dato di fondo: le imprese italiane, parlo delle grandi perché le piccole sono
quasi sulla stessa barca dei loro lavoratori, sembrano aver perso la vocazione
al rischio, all’investimento in nuovi prodotti: preferiscono sopravvivere, ma
in un mercato così aggressivo è una strategia perdente».
Anche in questo caso,
il confronto Wolkswagen-Fiat è emblematico: mentre il gruppo tedesco ha
annunciato 40 novità, fra restyling e modelli nuovi di zecca, nessuno sa
esattamente ancora quale sarà il nuovo piano industriale del Lingotto. Secondo
Airaudo, in questa partita all’Italia manca un protagonista fondamentale, la
politica: «Il ministro del lavoro Elsa Fornero non può limitarsi ad affermare
che non spetta al Governo dire alle imprese cosa devono fare: si deve discutere
insieme e trovare la soluzione migliore possibile per i lavoratori e le loro
famiglie. In concreto, torniamo alla situazione della Fiat. La domanda è: posto
che l’azienda che abbiamo conosciuto per un secolo non esiste più e in futuro
sarà sempre meno legata alle sue origini, cosa si può fare per difendere il più
possibile la succursale italiana della multinazionale Fiat?
Il Governo deve
avere la capacità di avanzare proposte concrete che non escludano anche
contributi, purché siano erogati sul modello di quelli che Obama ha concesso a
Marchionne per risanare la Chrysler: non a fondo perduto, ma con l’impegno a
restituirli entro un termine stabilito e pagando un tasso d’interesse.
Marchionne li ha restituiti addirittura in anticipo e la Chrylser si è ripresa.
Perché questo modello non potrebbe funzionare anche qui? Sarebbe una bellissima
novità e forse le imprese ritroverebbero il coraggio perso in questi anni».
Eugenio Arcidiacono