Nel nostro portafogli ce ne sono almeno
due. Le utilizziamo ogni giorno
per accumulare punti, buoni sconto
e comprare prodotti scontati. Sono
le fidelity card. Gli ultimi dati Nielsen dicono
che il 90 per cento delle famiglie italiane
fa abitualmente la spesa usandone
una. Anche loro, fotografando il nostro
comportamento tra gli scaffali, insidiano
la privacy. ».
«In Italia», dice Cristina Ziliani,
docente all’Università di Parma e responsabile
dell’Osservatorio carte fedeltà,
«a differenza degli altri Paesi esiste una legislazione
sul trattamento e la tutela dei
dati molto severo e rigoroso. Le aziende
devono chiedere il consenso all’utilizzo
dei dati ma se vogliono fare la profilazione,
cioè lo studio del comportamento della
clientela, devono chiedere un altro consenso.
Non dimentichiamo che sono tutti
dati aggregati: si perde il dato individuale
perché all’azienda non interessano gli acquisti
del signor Rossi ma i comportamenti
di alcuni segmenti di clientela».
Nessun problema, quindi?
«Il consumatore
», spiega, «deve preoccuparsi molto
di più di quello che scrive sui social
network dove i suoi dati diventano di proprietà
di Facebook, di cui non si conosce
né la politica aziendale né a quale tipo di
legislazione debba obbedire».
In Italia le fidelity card esistono da
15 anni ma con la crisi sono aumentate.
«È un mezzo per risparmiare», dice Ziliani
che rassicura: «La legge obbliga a buttare
via i dati dopo due anni». Lo scopo è chiaro:
fidelizzare il cliente. «Non dimentichiamo
», spiega la professoressa, «che ogni
punto accumulato vale un centesimo che
l’azienda regala al cliente sotto forma di
buoni sconto. A fine anno sono milioni di
euro. È uno scambio virtuoso: io ti restituisco
del valore e in cambio tu mi dai l’opportunità
di studiare le tue preferenze
d’acquisto e migliorare l’offerta».