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domenica 06 ottobre 2024
 
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Msf, una dottoressa italiana testimone del massacro

15/08/2015  «Mentre scendo i gradini la gente attorno a me non parla più, non li sento gridare. Sento qualcuno che singhiozza. Mi rendo conto che sono io. Mi guardano in silenzio mentre scendo le scale con quel corpo tra le braccia e piango come se questo bambino fosse il mio». Lamia Bezer, 38 anni, chirurgo italiano e responsabile medico dell’ospedale di Medici Senza Frontiere ad Aden (nel sud dello Yemen), è appena rientrata in Italia. Dopo tre mesi in prima linea. Ecco il racconto di ciò che ha visto.

La dottoressa Lamia Bezer di Medici senza frontiere. In copertina: il team di Msf in Yemen impegnato nella cura dei feriti dopo un attacco.
La dottoressa Lamia Bezer di Medici senza frontiere. In copertina: il team di Msf in Yemen impegnato nella cura dei feriti dopo un attacco.

di Lamia Bezer *   La prima parola che mi viene in mente per raccontare la mia esperienza nello Yemen è massacro.

È il 19 luglio. Siamo in piedi dalle 4 e mezza perché ci sono arrivate numerose vittime da arma da fuoco e abbiamo finito quando ormai è mattina. Stiamo facendo il giro delle visite e siamo appena alla prima stanza quando sentiamo suonare la sirena, inconfondibile suono che significa "mass casualty" al quale tutti rispondono precipitandosi in pronto soccorso per dare una mano.

Siamo increduli perché di solito sono io a suonarla e forse é stato un errore. Andiamo verso il pronto soccorso e ci troviamo davanti a quello che sarà l’inizio di una tragedia. Corro fuori dalla porta d’ingresso e vedo vari mezzi ripieni di persone o forse dovrei dire corpi perché molti di loro sono immobili.

La guardia all’ingresso suona un campanello per avvertici dell’arrivo di un nuovo paziente ma ora è un suono dietro l’altro in un susseguirsi rapido e incessante che diventa in un unico lungo “drrrrrrin”.

Non ci sono dubbi, non era un errore, è una mass casualty.

Rimango sulla terrazza per fare il triage, un compito terribile ed emotivamente devastante, in cui si deve decidere delle condizioni di tutte le vittime nel giro di pochi secondi. E non si ha tempo di pensare che chi è in agonia ha diritto a una morte dignitosa perché lo staff deve concentrarsi su tutti coloro che hanno una chance di sopravvivere.

Le vittime sono portate a braccio da decine di persone che li hanno raccolti sul campo di battaglia, o in questo caso, dalle macerie delle loro case che sono state bombardate alla cieca. Tutti corrono più veloci che possono nella speranza di portare corpi che siano ancora vivi, e gridano per farsi spazio tra la folla e poterli lasciare in un letto d’ospedale. Per poi tornare in prima linea a cercare nuove vittime.


I primi dodici ingressi sono cadaveri, li guardo brevemente in volto mentre cerco un segno di vita.

Poi faccio cenno di portarli nella "black zone". Continuo per alcuni minuti che sembrano ore e mi rendo conto che devo delegare il triage e gestire il resto dell’ospedale perché nell’atrio è il caos.

Il corridoio che porta alla zona rossa dove vengono portati i malati critici è bloccato. Una fila di cadaveri e pazienti in extremis ha bloccato l’accesso. Chiedo aiuto a una delle guardie, poi a un portantino. Mi rendo conto che sto gridando perché c’è un chiasso di sottofondo e nessuno riesce a distinguere le voci singole che vengono nascoste da urla di disperazione, rabbia e pianti.

Qualcuno mi prende la mano. Abbasso lo sguardo e vedo questi due occhi sgomenti e pieni di lacrime. Avrà sette anni o giù di lì, sta singhiozzando, mi dice qualcosa in arabo che io non capisco. Mi tira per un braccio vuole che lo segua. La traduttrice lo prende per mano e lui le ripete gridando: dov'è la mia mamma? Voglio la mia mamma! Poi corre fuori da solo alla vana ricerca e scompare nella folla.

Ci sono corpi dilaniati dalle esplosioni, parenti delle vittime che cercano i loro cari con il terrore negli occhi di chi ha visto la stessa scena troppe volte e sa come andrà a finire, membri dello staff che sono devastati dalla vista della loro gente colpita e che corrono per aiutare i più.

Devo rimuovere i cadaveri ma non so come fare, sono troppo pesanti per portarli da sola. Devo portarli fuori, sono troppi per rimanere nel corridoio, ne arriveranno molti altri e non avremo più spazio per i vivi.

Mi guardo intorno e vedo un bambino. Avrà avuto cinque anni circa. È sdraiato in mezzo a tutti gli altri ma è così piccolo rispetto a loro. È stato colpito alla testa, deve essere stata una morte veloce penso. Mi chiedo se abbia sofferto. Ha un’espressione stupita sul volto, per quello che riesco a vedere che non sia coperto di sangue. Mi faccio spazio tra i corpi e lo sollevo di forza. Lo tengo tra le braccia e la sua testa è appoggiata al mio petto come se stesse dormendo.


Ma non dorme, è morto. Mi faccio spazio tra la gente e lo porto fuori dall’uscita laterale. Trovo una camionetta aperta sul retro, sembra un furgone per le consegne del latte. Eppure oggi non porta cibo ma una pila di corpi uno sopra l’altro, accatastati come sacchi di farina. Mi viene un conato di vomito. Ci sono cento gradi e non respiro. Mi sento la maglia appiccicata addosso e penso che sia il sudore ma è il sangue di questo piccolo essere che mi cola addosso lentamente.

Mentre scendo i gradini la  gente attorno a me non parla più, non li sento gridare. Sento qualcuno che singhiozza. Mi rendo conto che sono io. Mi guardano in silenzio mentre scendo le scale con quel corpo tra le braccia e piango come se questo bambino fosse il mio. Lo appoggio più dolcemente che posso accanto ad un altro corpo, sul marciapiede. Gli chiudo gli occhi. E da quel momento non sono sola. Una fila di mani mi aiuta a portare tutti gli altri corpi fuori dal corridoio. Per fare spazio a chi forse ce la farà.  

Era solo l’inizio di una strage, il cui aspetto più devastante è che è passata in silenzio.


* medico chirurgo di Medici senza frontiere, da tre mesi in Yemen
(a cura di Luigi Grimaldi)

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«Yemen in ginocchio». Parla Lamia Bezer, la dottoressa italiana di Msf
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