Dopo 19 anni, quando semisconosciuto portò al Lido "Come te nessuno mai" (azzeccato film giovanilistico che aprì le porte ai successi di "L’ultimo bacio" e "Ricordati di me"), Gabriele Muccino è tornato alla Mostra di Venezia come regista ormai ultra affermato per presentare L’estate addosso, applaudito dagli spettatori della nuova Sala Giardino ma un po’ meno dalla critica. Eppure, la sua è una pellicola ben girata e con il taglio giusto per piacere ai ragazzi. A cominciare dalla canzone omonima di Jovanotti che fa da sfondo alla storia e ai titoli finali. Tocca al pubblico adesso giudicare visto che il film, anticipando la data fissata, uscirà distribuito dalla 01 nei cinema di tutta Italia il 14 settembre per aderire alla nuova iniziativa del ministro per i Beni e le Attività Culturali Dario Franceschini in favore del rilancio delle nostre sale: offrire il biglietto di ingresso a soli 2 euro il secondo mercoledì di ogni mese.
“L'estate addosso è dedicato a tutti, perché i sentimenti non hanno età, ma si colloca inevitabilmente in una età fatidica che è quella che va dai 18 ai 25 anni”, spiega Muccino immerso nel verde di un giardino del Lido poco distante dal mitico Hotel Des Bains, oggi malinconicamente chiuso. “Sono perciò entusiasta di aderire a questa iniziativa che rende accessibile il cinema ai ragazzi, che potranno così avvicinarsi alle sale a un prezzo straordinario e con un passo molto più allegro”.
Il regista Gabriele Muccino.
Muccino, parte della critica l’accusa, al solito, di essere un po’ troppo commerciale. Come reagisce? Ci ha fatto il callo?
“Rivendico per un regista il diritto dovere di portare il pubblico al cinema. E’ questo il nostro mestiere. Ormai, a quasi cinquant’anni, non me la prendo più per queste cose. Sostengo anzi che una cattiva recensione, se scritta bene, può essere costruttiva, uno stimolo. A patto però che sia ben scritta e non tirata via, superficiale o piena di luoghi comuni come sovente accade. Quanto all’accusa di superficialità rivolta al mio film, non sono affatto d’accordo: questa è leggerezza”.
Si spieghi…
“Leggerezza per il punto di vista che ho scelto nel raccontare i diciott’anni, quell’età in cui, subito dopo la maturità, si parte alla scoperta del mondo e poi si ritorna a casa, alla vita reale. Quell’età in cui non si conosce nulla della vita, ci sono paure, fragilità eppure si sente che tutto è possibile. A livello emozionale ci ho messo molto di autobiografico. Mi sono messo nelle vene del mio protagonista”.
Una testa di riccioli piena di strani pensieri dopo l’esame. Il casco che vola per un incidente col motorino. La convalescenza. Un inaspettato risarcimento e così la possibilità di fare il tanto agognato viaggio negli Stati Uniti per raggiungere un compagno. O forse trovare sé stesso. Marco (il Brando Pacitto della serie Braccialetti rossi) si ritrova così sull’aereo, ma non da solo. Con lui c’è Maria (Matilda Lutz), compagna certo bella ma secchiona e bacchettona, una che mai e poi mai avrebbe voluto in quel viaggio. Colpa del famoso amico che ha trovato per entrambi ospitalità in una casa a San Francisco da una coppia di conoscenti. Pazienza. I conflitti tra i due non tardano però a venire a galla, specie dopo aver scoperto che la coppia che li ospita è formata da due lui, Matt e Paul, giovani omosessuali poco più grandi: eleganti, colti, affiatatissimi, già inseriti nel lavoro. In una parola, affascinanti. Marco è subito entusiasta. Maria, preda dei suoi pregiudizi (siamo negli anni Novanta), la prende male. Nonostante le diffidenze iniziali, però, i quattro diverranno amici e faranno anche un viaggio a Cuba in cui avranno modo di raccontarsi, fare i conti con sé stessi, capire chi vorranno essere. Un’estate che si porteranno per sempre addosso.
Malgrado lo sviluppo prevedibile della vicenda, a dare un guizzo al film è la sincerità con cui Muccino riesce a esplorare sentimenti ed emozioni dei quattro ragazzi. Un’onestà di fondo che di certo farà breccia nei cuori degli spettatori più giovani. E gli va riconosciuta la delicatezza con cui racconta l’affetto nato tra Matt e Paul, il pudore con cui mostra la loro esistenza come una normale vita di coppia, la capacità di rifuggere da qualsiasi grossolanità o esibizionismo. Insomma, non uno spot in favore dei gay ma un sincero interrogarsi. E interrogarci.
“Dopo aver girato quattro film negli Usa (La ricerca della felicità, Sette anime, Quello che so sull’amore, Padri e figlie, fruttati oltre 700 milioni di dollari n.d.a.) avevo voglia di mettermi dietro la cinepresa per l’urgenza di raccontare una storia che sentivo e non perché era arrivata una buona sceneggiatura”, spiega Muccino. “Avevo cominciato già a scriverla una decina d’anni fa, ma non ero convinto. Un paio d’anni fa l’ho ripresa in mano e sono andato avanti. Anche il coinvolgimento del mio amico Jovanotti è nato tempo fa, questo spiega la sua canzone”.
Perché la scelta di far confrontare i due adolescenti italiani con una giovane coppia gay? E’ un tema che tira?
“Direi che si tratta di problematiche ancora irrisolte. Anche se la mia storia è ambientata negli anni Novanta, il tema è ancora delicato in Italia pur riconoscendo l’importanza delle parole di papa Francesco. E non è che oggi la Louisiana dei miei personaggi americani sia meno omofoba e razzista. Anzi, la maggior parte degli Stati Uniti discrimina ancora gli omosessuali e San Francisco resta un luogo speciale di tolleranza. Ma il mio non è un film sugli omosessuali. Ho evitato accuratamente i luoghi comuni. Niente drag-queen o gay-pride. C’è solo la verità degli affetti”.
Scusi, allora perché questa scelta? Marco e Maria non avrebbero potuto alloggiare in casa di una qualsiasi coppia?
“Partiamo dalla constatazione che i miei quattro personaggi sono tutti in fuga da qualcosa. Potevo tuffare i ragazzi italiani in una coppia di colore che fatica a integrarsi nella società dominata da bianchi. Mi ci volevano comunque il disagio e la differenza. Il mio è un film sull’identità, sulla ricerca e il bisogno di scoprire il vero sé stesso”.
Rispetto ai suoi titoli giovanilistici di successo, L’estate addosso è girato con ritmo meno frenetico. Il suo sguardo, a tratti, più che quello di un fratello sembra quello di un padre affettuoso…
“E’ il primo che me lo dice. Non saprei. Certo, oggi sono anche un papà di tre figli e il maggiore ha diciassette anni. Cerco di non essere un padre apprensivo e forse, grazie proprio al mio mestiere di regista, riesco spesso a mettermi alla stessa altezza dei ragazzi. Forse anche troppo. Il fatto è che penso che oggi i giovani debbano tornare a essere ottimisti”.