La locandina del film documentario. In copertina: un momento dell'incontro fra Alì e Foreman.
«Me lo mangerò in un boccone! Sono troppo veloce per lui, troppo veloce!». È l’inizio di “Quando eravamo Re”, lo splendido film documentario diretto da Leon Gast che racconta l’epico incontro fra Cassius Clay-Muhammad Alì e George Foreman del 30 ottobre 1974 a Kinshasa, nello Zaire del dittatore Mobutu Sese Seko.
È Mohammad Alì, naturalmente, a dire che si mangerà in un boccone Foreman, considerato in quel momento quasi imbattibile, e oggi uno dei più potenti pugili di tutti i tempi. Potente, ma non il più grande, aggettivo che invece spetta ad Alì: «Io sono il più grande. L'ho detto persino prima di sapere di esserlo», è una delle sue celebri frasi.
“Quando eravamo Re” racconta ben più di un incontro di boxe. Quella sfida, e tutto ciò che la preparò, è simbolo di quello che è stato e che ha rappresentato il pugile afroamericano.
Alì andava a incontrare George Foreman dopo aver perduto, tre anni prima il titolo mondiale contro Joe Frazier. Partiva perdente: Foreman era già considerato uno dei più grandi pugili di sempre, era in grandissima forma, era più giovane di lui.
Muhammad Alì e il dittatore Mobutu Sese Seko.
La sfida per il titolo mondiale dei massimi l’aveva fortissimamente voluta nella capitale zairese l’allora giovane presidente Mobutu, che aveva intuito che ospitare la grande sfida avrebbe significato portare se stesso e il Paese africano sotto i riflettori dell’intero pianeta. Così avvenne.
Mobutu e i due pugili capirono anche che la “vetrina” poteva essere prolungata: l’incontro doveva svolgersi il 25 settembre, ma per vari “imprevisti e contrattempi” fu rinviato fino al 30 ottobre. Alì e Foreman restarono a Kinshasa, la capitale zairese, per l’intera estate del 1974. E Alì ebbe tutto il tempo di “demolire” Foreman, prima che sul ring, con le interviste, le frasi a effetto, le accuse di all’avversario di essere il simbolo della discriminazione e dell’imperialismo occidentale e statunitense contro gli afroamericani.
In quei tre mesi Alì celebrò il suo “ritorno a casa” nel ventre della Madre Africa, fece della sfida il simbolo del riscatto africano, preparò la caduta di Foreman al tappeto come il momento della rivincita del popolo nero. Esattamente ciò che voleva Mobutu: Alì forse non si rendeva conto che oltre ad accreditare se stesso e la causa in cui tanto credeva, stava anche facendo da straordinario amplificatore a un giovane dittatore africano che aveva bisogno di una patente di credibilità internazionale per passare nell’immaginario collettivo da feroce dittatore africano, a leader di un Paese che avrebbe voluto diventare guida della rinascita africana. Un incredibile affabulatore, Muhammad Alì, tanto da riuscire a dipingere il nero Foreman come l’emblema dell’oppressione dei bianchi.
Sempre strafottente e provocatorio, Muhammad Alì ha lavorato ai fianchi Foreman con le dichiarazioni, giorno dopo giorno: «Lo manderò in pensione. Manderò in pensione il campione George Foreman», diceva. «La cosa farà più scalpore delle dimissioni di Nixon». Prima e durante l’incontro: «Mi avevano detto che sapevi dare pugni», gli soffiava nel corso del match.
I giornalisti di tutto il mondo raccontavano la preparazione della grande sfida, mentre nelle prigioni di Kinshasa gli oppositori politici di Mobutu venivano torturati e ammazzati. Ma il circo mediatico, nella capitale zairese, non vedeva altro che quel ring del Stade Tata Raphaël di Kinshasa. Lo stesso Cassius Clay parlava di riscatto e di libertà del popolo nero a poche centinaia di metri dalle terribili prigioni politiche del dittatore zairese.
Alì sapeva di essere più debole del suo avversario, ma infinitamente più carismatico. Lo sconfisse portando dalla sua parte l’opinione pubblica e poi tutti gli spettatori: «Ali bomaye! Ali bomaye!», era l’urlo della folla durante l’incontro, «Alì, uccidilo!». Quella sfida cambiò anche la storia della boxe: mai prima d’allora un incontro era stato preparato con una tale sofisticata e vincente pianificazione tattica.
Per la cronaca, il match durò otto riprese, in gran parte dominate da Foreman. Ma Alì lo sfiancò, fisicamente e psicologicamente, con le parole e con la sua strategia di gestione del combattimento. All’ottava ripresa Alì mise al tappeto un Foreman stremato, sfruttando il momento di maggiore vulnerabilità dell’avversario: con una serie rapidissima di colpi e un diretto micidiale lo mise ko.
Alì e Foreman, molti anni dopo...
Il film documentario di Leon Gast uscì 22 anni dopo l’evento, nel 1996. Vinse numerosi premi, compreso l’Oscar.
E la consegna del riconoscimento, nel 1997, è emblematica tanto quanto l’evento del 1974 e il film documentario che lo narrò: fu Muhammad Ali, già affetto dal morbo di Parkinson e malfermo sulle gambe, a salire sul palco per ricevere la statuetta. E fu proprio l’ex rivale George Foreman ad aiutarlo a salire i gradini. I due negli anni erano diventati amici, i due neri, il più potente e il più grande.