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sabato 22 marzo 2025
 
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Il duro mestiere dell'archeologo

13/10/2014  Gli esperti del Museo egizio di Torino ci preparano all'uscita del nuovo, atteso romanzo di Wilbur Smith, "Il dio del deserto", in arrivo a inizio novembre. Oggi parliamo di che cosa significhi scavare in Egitto.

La coperrtina del nuovo libro di Wilbur Smith, in arrivo a inizio novembre. In alto: uno degli archeologi più famosi, Indiana Jones.
La coperrtina del nuovo libro di Wilbur Smith, in arrivo a inizio novembre. In alto: uno degli archeologi più famosi, Indiana Jones.

Nell’immaginario collettivo scavare in Egitto è esotico, misterioso ed emozionante e l’archeologo è un po’ come un cacciatore di tesori che passa da un’avventura all’altra viaggiando per il mondo. A costruire questa immagine hanno ovviamente contribuito in tempi recenti romanzi e pellicole cinematografiche di argomento pseudo-archeologico.

Ma già nel passato l’alone di fascino ed eroismo che avvolgeva le grandi esplorazioni o le scoperte archeologiche era generato e diffuso dai protagonisti stessi delle imprese, attraverso i loro diari, pensati fin dall’inizio per essere pubblicati e divulgati. A volte però brevi riferimenti contenuti nelle lettere o nei taccuini degli archeologi del passato ci restituiscono un’immagine più realistica di quello che doveva essere la prima fase dell’esplorazione archeologica dell’Egitto ai primi del Novecento, in molti aspetti simile all’archeologia moderna.

Ora come allora lo scavo è un’attività abbastanza ripetitiva e molto spesso fisicamente impegnativa. Lo scavo è generalmente svolto in un ambiente difficile - per clima, temperatura, insetti o tempeste di sabbia - che spesso influisce anche sulla convivenza stretta e prolungata con gli altri membri della missione archeologica portando a tensioni, piccoli conflitti o vere e proprie crisi di nervi. Allora come ora ci si adattava ad usare qualsiasi tipo di contenitore per raccogliere e custodire i reperti più piccoli o frammentari: le scatole di sigarette, di tabacco o di pastiglie erano fra le più usate anche dal celebre direttore del museo egizio di Torino, Ernesto Schiaparelli.

Per gli altri reperti già durante i suoi scavi in Egitto, fra il 1903 e il 1920, si impiegavano scatole di cartone o le locali cassette da frutta fate di rami di palma intrecciati. Ora come allora bisogna provvedere alla fabbricazione di grandi casse in legno o metallo per imballare i reperti più voluminosi e trasportarli nei magazzini.

Scavando in contesti funerari il rinvenimento più comune è poi rappresentato da frammenti di bende di lino e resti più o meno preservati di mummie mescolati a schegge di calcare e pezzi di sarcofagi. Tutto deve essere raccolto con grande cura e attenzione e le doti più apprezzate in un collaboratore, ora come allora, rimangono la capacità di adattarsi alla situazione, la pazienza e la precisione.

Bisogna ricordare infine che, fin dalle prime ricerche sistematiche del XIX secolo, nessuno scavo e quindi nessuna scoperta sarebbe stata possibile senza l’aiuto prezioso ed il lavoro degli egiziani. Ed ora come allora il ritmo del lavoro è spesso scandito dai loro canti improvvisati.

Come infatti racconta Francesco Ballerini, collaboratore archeologo di Schiaparelli, sul periodico del Corriere della Sera “La Lettura”, nel 1903: “cantano, cantano tutto il giorno, traendo spesso motivi di canzone da cose affatto accidentali: un capo coro canta un verso da solo e tutta l’altra massa ripete le sue parole (…) e ancora bene rammento come appena vedessero apparire alcuno di noi tutti intonavano: Ecco, i nostri signori stanno sotto il parasole…”.

Paolo Del Vesco (Museo egizio di Torino)

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