la sociologa Chiara Giaccardi
«Nel discorso da palazzo Venezia del 10 giugno 1940 anche le pause lasciate alla folla per acclamarlo non sono casuali, ma sono una delle tante astuzie mediatiche del grande comunicatore. Mussolini al balcone non è solo attore, ma anche regista e sceneggiatore dell’evento, mentre il popolo è solo comparsa che interviene come quando nelle sit-com s’illumina la scritta “applausi”». Secondo l’analisi della sociologa Chiara Giaccardi, docente alla Cattolica di Milano, il duce era già un comunicatore totale “che utilizzò, anticipando i tempi, la multimedialità, piegando a scopi propagandistici stampa, cinema, radio, architettura”.
«Ancor prima delle parole, a trasmettere forza, virilità e potenza sono la postura, il piglio deciso, l’espressione del volto, il tratto fisiognomico. Pensiamo solo alla “fortuna” della mascella volitiva», continua la docente. «Mussolini incarna il modello di “imperatore tribale”, di cui parlava Marshall Mcluhan, cioè quel leader che sa indossare la propria audience come un abito. Oscillava, infatti, tra le pose del seduttore e quelle del maschilista. Ebbe ad affermare: “La massa ama gli uomini forti; la massa è donna”».
«Figlio di una maestra, lui stesso maestro, considerava paternalisticamente il popolo come massa da indottrinare», osserva Giaccardi. «La sua capacità manipolativa e persuasoria passava attraverso un’oratoria strumentalmente basata sul “parlare schietto”, a volte rozzo, tipicamente romagnolo, di cui peraltro si vantava: un modo di esprimersi politically incorrect, provocatorio, farcito di affermazioni criticabili, ma efficaci. Era, tuttavia, solo una parvenza di parresia: spacciava per il coraggio di dire tutto la mera arroganza verbale. Anche questo faceva parte della costruzione del personaggio».
Quali altri elementi distintivi aveva la retorica mussoliniana?
«Certamente il suo “discorso” era volto, più che a tranquillizzare i borghesi, a farsi legittimare come protettore delle classi deboli. A dimostrarlo è l’uso ricorrente, non casuale, nel suo eloquio, di due termini: “popolo” e “proletariato”. Col primo punta a ergersi difensore delle masse, ma in una logica paternalistica, per certi versi mafiosa. Col secondo, mutuato dal vocabolario socialista, mira a presentarsi come colui che tutela i diritti delle classi subalterne, rispetto ai privilegi della borghesia e del clero. Ma anche questo lessico è strumentale: serve a far passare l’idea della necessità di un uomo forte al comando, contro la debolezza delle democrazie imbelli».
Oltre alla retorica c’è un uso massiccio di simboli. Quali?
«Mussolini aveva colto che l’efficacia politica passa non solo attraverso l’ars oratoria e la parola, ma si avvale anche della forte carica del simbolo: ciò che anche in assenza del corpo del leader, lo rende sempre presente. Calza bene, ancora una volta, l’immagine dell’imperatore tribale. La simbologia della romanità trionfale, faro dei popoli, è un’immagine evocante potentissima funzionale, tra l’altro, alla sua politica coloniale: la Roma dei Cesari richiama direttamente l’impero che va ricostruito».
Il duce ha usato come strumenti di propaganda, oltre alla stampa, anche le arti, il cinema. Ha istituito il Minculpop. Intuizione, pianificazione?
«A Como, la città in cui vivo, c’è quel noto edificio di regime che è la “Casa del Fascio”, di Giuseppe Terragni: sulla parete di vetro e metallo nello stile razionalista c’è una parte in marmo bianco che veniva utilizzata per proiettare i filmati trionfalistici delle gesta del duce. Qui c’è già chiara l’idea del coinvolgimento della massa nel progetto fascista, usando la potenza dell’immagine, più immediata ed emotiva della parola. Quello di Mussolini è un caso di convergenza mediale ante-litteram. Il medium è il messaggio dice ancora Mcluhan e il messaggio è lui. L’idea di un sistema composito di media da gestire insieme è assolutamente moderna, sebbene forse non ne fosse cosciente del tutto».
Le strategie di comunicazione politica odierne quanto sono debitrici di quelle fasciste?
«L’idea del corpo del leader e la forte personalizzazione è una strategia ormai usata in modo trasversale da tutte le forze politiche: pensiamo a Grillo, Renzi, Salvini, per fare solo tre esempi. Incarnano, per alcuni aspetti, le figure della metafora mcluhaniana di “imperatore tribale”. Poi ci stanno, invece, frange politiche estreme che si appropriano volutamente del “parlar schietto” per trasformarlo in discorsi dell’odio, giocando sull’equivoco che hate-speech sia free-speech. E’ una chiara eredità che viene dalla retorica mussoliniana. Strizzare l’occhio alla massa, e ricercarne il consenso, spacciando forme discorsive di retorica per forme di coinvolgimento popolare vero e proprio questo è un altro portato di quel regime».
Allude anche all’illusione rappresentata dalla cosiddetta “democrazia immediata”, dei sondaggi, delle piattaforme votanti?
«Direi che quest’illusione di partecipazione attiva purtroppo è dei nostri giorni. Non è forse vero che pensiamo di partecipare solo perché mettiamo un “like” su un post? L’illusione della disintermediazione, favorita dai social media, consiste proprio in questo: che sia possibile un contatto diretto col leader, anche se a distanza. Ma è più “marketing” che vero spazio di dialogo e di democrazia. Ci sono leader nostrani più di altri che utilizzano tutte le piattaforme, comprese quelle più giovanilistiche, come per esempio Tik Tok. L’idea di occupare tutti gli spazi mediatici per una comunicazione persuasivo-seduttiva, tuttavia, non ha molto a che fare con la crescita della democrazia».