Un pavimento sudicio, una lametta arrugginita, un dolore lacerante. «Pensavo che sarei morta», dice Nkatha. Invece Nkatha è viva, ma quel dolore la accompagna sempre, senza contare il terrore che la assale ogni qualvolta la sua mente torna a quel momento. «Il dolore è sempre con te, quando vai al bagno, durante il ciclo mensile, nei rapporti sessuali, durante il parto», aggiunge Madina. Ma a ricordarlo sono anche le emorragie, le cisti, le infezioni, a volte il tetano, l’infertilità, le complicazioni in gravidanza, e anche i figli nati morti.
Questo rapporto perenne con il dolore è quello su cui mettono l’accento tutte le donne a cui è stato fatto il “taglio”, ovvero una mutilazione genitale, parziale (circoncisione ed escissione) o completa (infibulazione) che sia.
Una pratica aberrante, molto più diffusa di quello che si pensi. Al mondo 125 milioni di bambine e di donne vivono con le conseguenze devastanti ‒ nel fisico e nella psiche ‒ di tale pratica; di queste, oltre 100 milioni si trovano in circa 29 Paesi africani, e nel Medio Oriente (Iran, Iraq, Yemen, Oman, Arabia Saudita, Israele) e, in misura minore, in alcuni Paesi asiatici, come l’Indonesia, la Malesia, o in alcune regioni dell’India.
In Egitto, Guinea, Sudan, Mali, Somalia, le donne tra 15-49 anni, sottoposte a Mgf superano il 90%; in Eritrea ed Etiopia, la pratica sta tra l’80 e il 90%, in Burkina Faso e in Mauritania tra il 70 e l’80%.
Se questo trend continuerà, le Nazioni Unite stimano che, nel 2030, circa 86 milioni di bambine nel mondo avrà subito questa crudeltà. Le legislazioni di gran parte dei Paesi africani vietano tali menomazioni, ma non basta per fermare una pratica che ha radici antiche, e che trova terreno fertile nell’ignoranza. In Guinea, per esempio, la legge è in vigore da 40 anni, e prevede punizioni severissime, anche la pena capitale, se la bambina muore, eppure il 98% delle donne è escisso e nessuno è mai stato punito.
Ecco perché il 20 dicembre 2012, l’Assemblea generale delle Nazioni Unite ha deciso di dedicare una giornata di sensibilizzazione alla lotta alle mutilazioni genitali femminili (Mgf), una pratica che viola i diritti umani. Così, il 6 febbraio è diventata la data della tolleranza zero, con l’obiettivo di incoraggiare i governi, i membri della società civile, le associazioni, il personale medico-sanitario a intraprendere azioni concrete per arginare il fenomeno.
"Questa è la più grande violazione dei diritti delle bambine"
«C’è una corrente di pensiero che dice: “Facciamo l’intervento in ospedale, per evitare rischi”. Ma non è questo il punto. Sono contraria alle mutilazioni genitali femminili, a prescindere dal luogo dove vengono praticate. Questa è la più grande violazione dei diritti delle bambine, assieme al fatto che spesso vengono fatte sposare poco dopo essere state tagliate», dice perentoria Tiziana Fattori, direttore nazionale Plan Italia onlus (affiliata a Plan International), da sempre impegnata nella tutela dell’infanzia.
Il 6 febbraio sono state realizzate varie iniziative di sensibilizzazione in molte città italiane, a partire dall’incontro, tenutosi nella sala stampa della Camera dei Deputati, intitolato “Le mutilazioni genitali in Europa: la convenzione di Istanbul per contrastare il fenomeno” (La Convenzione di Istanbul, sulla prevenzione e la lotta alla violenza contro le donne, è stato il primo trattato, siglato nell’aprile 2011, a riconoscere l’esistenza delle Mgf in Europa).
La legge n.7 del 9 gennaio 2006, approvata dal Parlamento italiano, definisce le Mgf un reato, indicandole come “una violenza che per nessuna circostanza può essere giustificata nel rispetto delle tradizioni culturali di vario genere o di cerimonie di iniziazione”, e prevede attività di prevenzione. Ma non è sufficiente, perciò, nell’occasione del 6 febbraio, Plan Italia ha rinnovato il suo appello al Governo italiano, affinché si impegni ad affrontare la sfida dell’eliminazione delle mutilazioni, in Italia e in tutti i Paesi in cui vengono praticate, mediante leggi che prevedano sanzioni severe per i trasgressori e l’istituzione di assistenza sanitaria gratuita per le vittime, e affinché favoriscano la diffusione di informazioni sul tema (per firmare la petizione: www.planitalia.org – sezione “Because I am a girl”, alla voce “Le mutilazioni genitali femminili”).
E proprio le informazioni possono fare la differenza. Plan Italia lo ha sperimentato. La vergogna, l’omertà, lo stigma sociale, moltiplicano i danni. «Le donne italiane», dice ancora Tiziana Fattori, «non vogliono ascoltare, mi dicono che non se la sentono. Ma bisogna parlarne, non fosse altro perché l’Italia con le sue 50 mila donne mutilate, vanta un triste primato europeo».
Le Mgf arrivano in Italia e in Europa con l’immigrazione. «L’estate», riprende Fattori, «è la stagione “dei tagli”. Molte bambine, figlie di immigrati, vengono portate “in vacanza” nei Paesi di origine, dove subiscono ciò che in alcune comunità viene ancora considerato un rito di passaggio essenziale».
- Come si combatte una tradizione così radicata?
«Fornendo un’alternativa. In certe comunità il passaggio all’età adulta è importante, e va sottolineato con un’adeguata cerimonia. Le bambine stesse – che non sanno esattamente che cosa succederà loro – sono elettrizzate, è il loro grande giorno, quello in cui saranno protagoniste. Non si può arrivare e dire che non si deve più fare. Bisogna entrare in punta di piedi, cercando di far capire i problemi che conseguono a queste pratiche, quindi convincere la gente a sostituire la mutilazione con qualcosa magari di simbolico, come il taglio dei capelli piuttosto che una vestizione particolare. Bisogna lavorare a più livelli. Le ragazze, se correttamente informate, sono le prime a rifiutarsi, e diventano agenti di cambiamento. Ma bisogna coinvolgere anche le donne che praticano le mutilazioni. Per loro è un lavoro. Nel Burkina Faso, per esempio, abbiamo implementato un progetto, che prevede di fornire loro uno stipendio, e sono diventate le nostre attiviste più motivate».
- Gli uomini che cosa dicono?
«Gli uomini sono spettatori passivi, dicono che a loro non interessa. Sono le mamme e le nonne che vogliono questo intervento, quando figlie e nipoti cominciano ad avere i primi movimenti ormonali, per “conservarle in purezza”. Per gli uomini, “è una questione da donne”».
- A che età si praticano le Mgf?
«In genere, sugli 8 o 9 anni, quando la bambina si è sviluppata. Ma, poiché si è capito che si tratta di una pratica dolorosa, alcune comunità hanno deciso di intervenire prima, addirittura su neonate, perché pensano che non sentano il dolore. Ma, più la bambina è piccola, e maggiori sono i rischi».