Tutti uomini. Dall’Artusi agli storici
“Luigi”, il Carnacina e il Veronelli.
Da Gualtiero Marchesi fino
agli chef belli e cattivelli della
generazione dei talent gastronomici
in Tv: Carlo Cracco, giudice
dell’ormai celebre Master Chef, e
il Gordon Ramsay nostrano, Antonino
Cannavacciolo, già cuoco affermatissimo
e ora approdato in Tv con la versione
italiana di Cucine da incubo; infine,
il patinato Davide Oldani, protagonista
insieme all’altro belloccio stellato Filippo
La Mantia del reality The chef.
Insomma, pare che per fare strada
nel mondo della cucina essere maschi sia
determinante.
Eppure, da qualche stagione,
si affacciano anche loro: le chef donne.
Silenziosamente, forse. Senza vistose
apparizioni televisive, ma con grazia e
creatività. Certo, una minoranza, ma forti
di un ruolo che da sempre le vede protagoniste.
Chi pensa, infatti, ai fornelli
di famiglia, si rapporta in genere all’autorevolezza
delle mamme, delle nonne, delle
zie. Sono loro che hanno segnato il
grande tracciato della cucina e della gastronomia
italiana.
Così, dopo la deliziosa spagnola Elena
Arzak, trentacinquenne mamma di
San Sebastian, ad aggiudicarsi il premio
Veuve Cliquot di miglior chef donna del
globo ai World’s 50 Best Restaurant Awards,
premio internazionale per i 50 migliori
ristoranti al mondo, è proprio una cuoca
italiana, Nadia Santini.
La migliore
rappresentante di tutte le mamme nostrane
che tengono salde le redini della
grande tradizione familiare in cucina.
«Mi piace pensare che sono la cerniera
che lega le generazioni», spiega lei.
«All’inizio di tutto, nel 1927, c’era l’osteria
Vino e Pesce di nonno Antonio, che era
pescatore.
L’aprì con nonna Teresa, donna
forte, nata in Brasile da genitori italiani.
La storia della loro famiglia dovrebbe
finire nelle pagine di un libro: passavano
sei mesi a raccogliere il caffè tra i lavoratori
neri dall’altra parte dell’Atlantico e
sei mesi per la stagione del grano nel
Mantovano. Il razzismo è un’invenzione.
Quando si lavora fianco a fianco, nella fatica,
non si guarda al colore della pelle o
al taglio degli occhi. Aprirono un’osteria
su un laghetto formato da un’ansa del
fiume, una capanna di canne e mattoni,
luogo ideale per muoversi con la barca».
- Quando la locanda del bisnonno divenne
“Dal pescatore”?
«Cambiò il nome con il figlio Giovanni,
papà di mio marito. Anche lui pescava,
era quello che sapeva fare fin da piccolo.
Si sposò con nonna Bruna. La gente diceva:
“Andiamo a mangiare dal Pescatore”.
Ecco il nome di oggi».
- E ora è arrivata la generazione vostra
e dei vostri figli.
«Dei miei ragazzi, Giovanni è l’attuale
capo della cucina, Alberto sta in sala.
Entrambi hanno scelto di passare
dall’università. Il primo ha studiato
Scienze e tecnologie alimentari, come
mia nuora Valentina, che lavora anche
lei con noi. Alberto ha scelto Economia».
- Anche nel vostro ristorante i libri
non mancano...
«Con mio marito, per crescere in questa
professione, abbiamo viaggiato molto.
Dai francesi, e in particolare da Bocuse,
Troisgros, Haeberlin, abbiamo imparato
che in un ristorante sono importanti
gli spazi, l’emozione che provi quando
entri in un luogo. I libri sono una delle
nostre identità, la voglia di tenere un legame
stretto con il passato, per essere
tramite verso il futuro».
Lei ama e conosce molto bene la letteratura.
Una passione?
(A questo punto Nadia cita un brano
di Dostoevskij, tratto da I Fratelli Karamazov.
Ci spiega che lì è racchiusa una parte
della sua filosofia di vita). «Nei libri di
ogni epoca è racchiusa una grande umanità.
Noi siamo su questa terra per un
tempo molto breve e dobbiamo mettere
il cuore in ogni cosa che facciamo. Si può
pensare all’economia, a metter via i soldi
per il futuro, ma poi ci accorgiamo che la
cosa più importante è vivere il più possibile
in armonia e felici con chi amiamo. I
libri, dal passato, ci aiutano a scoprire
una buona chiave. E credo che questo valga
anche per la cucina. Unisce, ci regala
una tradizione, un’identità. Esattamente
ciò che mi piace tramandare anche ai
miei figli, come dicevo, da cerniera tra le
generazioni».
- Un paragone tra la letteratura e la
buona cucina?
«Non vorrei che Dante si rivoltasse
nella tomba, ma a me diverte pensare
che i grandi cuochi, uomini o donne, hanno
ognuno un loro modo di trasferire attraverso
le mani e i piatti che creano pensieri,
gusti, la storia del loro territorio. Insomma,
il loro mondo. Proprio come fanno
i poeti con le parole, gli scrittori con il
lessico, i pittori con il pennello. Ci può essere
un cuoco romantico, un avanguardista,
un futurista, uno che ama i colori e li
utilizza nell’impiattare in modo creativo,
come avrebbe fatto Kandinskij».
- Lei chi vorrebbe essere?
«Una Madame De Stael, donna romantica
che amava viaggiare e raccogliere
il meglio della sua epoca, riportando
le novità che erano nell’aria».
- Il ruolo delle donne nella cucina è
anche questo, secondo lei?
«Gli uomini magari sono più intellettuali,
arguti. Le donne hanno sempre
dentro qualcosa della mamma. Col cuore
tengono vivi riti e tradizioni. Come fa ancora
oggi nonna Bruna con tutti noi. Il
menù di Natale, per esempio, è quello
della cucina di casa sua da sempre. Lei dice:
“La cucina non è un mito, che è una cosa
da archivio; è un rito, una cosa che si
perpetua e vive ogni giorno”».