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martedì 18 marzo 2025
 
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Nando Dalla Chiesa: "Il generale, mio padre. Ecco chi era davvero"

09/01/2023  Nando Dalla Chiesa, docente di Sociologia della criminalità organizzata alla Statale di Milano, racconta il lato privato del Carlo Alberto Dalla Chiesa, protagonista della fiction Il nostro generale, ucciso il 3 settembre 1982

I padri della Patria sono di tutti, specie se martiri, requisiti in qualche modo dalla memoria collettiva. Essere figli dei padri della Patria significa condividerli con il peso della loro vita pubblica mentre si cresce, e poi custodirne la memoria da grandi, sottraendola alle strumentalizzazioni. A 40 anni dal quel 3 settembre 1982 in cui ha perso la vita in un attentato mafioso il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, il figlio Nando ammette di aver fronteggiato un’estate non semplice di richieste di foto e di racconti, che concede con il consueto garbo.

Che padre è stato il generale Dalla Chiesa?

«Ci ha educati soprattutto con l’esempio, fatto di senso del dovere, di studi, di rispetto delle istituzioni, a partire dagli insegnanti, con cui c’era alleanza. Se era mia madre a fare da interfaccia con la scuola nella difficoltà di cambiare spesso città, mio padre gestì personalmente il passaggio quando io partii prima con lui per Torino, dove era stato trasferito all’improvviso, perché avevo gli esami di quinta ginnasio. Una volta andò a parlare con il mio professore di disegno: papà amava il bello, il fatto che io andassi male in disegno lo deprimeva. Anche alla scrittura teneva: dava a me e a Rita temi in più da svolgere, che poi leggeva».

Durante la contestazione, lei manifestava idee di sinistra: uno schieramento che criticava il lavoro del generale. Affrontaste il tema a casa?

«Ricordo una discussione accesa sulla questione palestinese, ma era un padre rispettoso. Non c’è mai stata rottura tra noi, c’erano mediazioni importanti, per esempio mentre scrivevo la tesi ho fatto l’ufficiale negli allievi carabinieri di complemento. Ho aderito alle idee della contestazione all’interno di un fondamentale rispetto per le istituzioni: avevo vissuto in caserma, sapevo che non era realistica l’immagine di uno Stato solo repressivo, tutto composto di persone con idee antipopolari ».

Come ha accolto il rifiuto dell’estradizione agli ex terroristi da parte della Francia?

«Ci leggo un segno dell’innamoramento della Francia per sé stessa, ma la grandezza di un Paese si misura anche dalla capacità di deporre l’orgoglio, si pensi alle scuse del Papa ai nativi del Canada. La Francia non ha saputo ammettere di aver fatto all’epoca scelte sciagurate, confondendo con la dissidenza politica un terrorismo che seminava morte in Italia, una democrazia nata da una Costituzione tra le più avanzate».

Ha collaborato alla fiction Il nostro generale che va in onda su Rai 1. Perché si è scelto di focalizzarla sugli anni del terrorismo?

«Sarebbe stato difficile ricostruire l’intera storia iniziata con la Resistenza e poi proseguita con la lotta alla mafia in tempi diversi tra Corleone e Palermo: questa parte è solo evocata. Si è scelto di ricordare mio padre, premiando le persone del Nucleo speciale antiterrorismo che hanno rischiato la vita per troppo tempo senza un grazie. Senza di loro l’Italia non avrebbe sconfitto il terrorismo, l’opinione pubblica non si rivoltò subito in massa come si dice: ricordo ancora nell’80 l’applauso che accolse in piazza la notizia che era stato ucciso il giudice Minervini».

Lei è uno studioso di mafia, quel 3 settembre ha segnato la sua strada professionale?

«Mi ero occupato di mafia prima, a quell’epoca ero orientato su altri studi. Il primo scritto sul movimento antimafia degli ultimi decenni è stato l’esito di annotazioni che avevo preso tra il 1982 e il 1983 andando nelle scuole dopo l’assassinio di mio padre: le domande che facevano, il clima che c’era, come si raccordavano insegnanti e studenti. A posteriori, con la consapevolezza del ricercatore, ho intuito che era materiale prezioso. Sarebbe stato impossibile, del resto, affrontare il maxiprocesso (di cui Nando Dalla Chiesa fu testimone, ndr) senza riprendere a studiare la mafia: uno studio sul campo più intenso e coinvolgente di quello che avrei fatto da puro accademico».

Come racconterebbe suo padre a chi non c’era?

«Un generale dei Carabinieri e un prefetto che ha contribuito a cambiare radicalmente l’atteggiamento dello Stato riguardo alla mafia: ha avuto importanti intuizioni sui meccanismi del potere mafioso, spiegava che i diritti vanno riconosciuti dallo Stato ai cittadini, non offerti come favori dalla mafia. Il suo andare da prefetto nelle scuole, quando nessuno lo faceva, dando protezione simbolica agli insegnanti che parlavano di mafia, ha creato le condizioni per cui gli studenti, che fino a poco prima vedevano nelle forze dell’ordine il nemico, si ricredessero: non ci rendiamo conto di che cosa vuol dire passare in tre-quattro anni da “carabiniere, basco nero, il tuo posto è il cimitero” all’alleanza morale con il lascito del generale Dalla Chiesa».

Si dice che in questo Paese si debba morire ammazzati per vedersi riconosciuto il proprio lavoro, è vero?

«C’è molto di vero. Quando una persona non c’è più ci si può servire dell’ipocrisia e della retorica per celebrarla. Chi disturba certi equilibri sociali rappresentando fino in fondo il senso delle istituzioni non sempre in vita viene onorato. Ai funerali di Antonino Caponnetto, per dire, non si vide neanche un sottosegretario».

Tra i riti familiari, suo padre le ha lasciato il presepe. Era segno di una fede?

«Di una religiosità di fondo, non bacchettona, forse non praticata ogni domenica, ma presente. La nostra educazione è stata cattolica, io ho fatto il chierichetto, Rita l’araldina. Aveva un dialogo con i cardinali Martini e Pappalardo. Nel suo costruire casette e scale di sughero per il presepe c’era anche l’amore per la famiglia: ci ha tramandato quella tradizione così a fondo che persino i miei nipoti hanno il culto del presepe e i miei studenti quando vanno all’estero mi regalano le statuine».

Intervista uscita sul numero 36/22 di Famiglia Cristiana, in occasione del 40° anniversario dell'omicidio del generale e della seconda moglie Emanuela Setti Carraro, uccisi da Cosa nostra il 3 settembre 1982.

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