Aveva ragione don Milani le vite non si misurano dallo spazio in cui si svolgono. Nando Dalla Chiesa lavora e riceve in una stanzetta zeppa di tesi di laurea al terzo piano della facoltà di Scienze politiche dell'Università statale di Milano: una mansarda minuscola che si scalda al primo sole, in cui passa però una grande concentrazione di conoscenza in tema di mafia e d'antimafia, in cui si trasmette conoscenza, senza enfasi con spirito laico, con il sano distacco che serve a tenere a bada le emozioni troppo forti per far prevalere la scienza e la ragione.
Professore, dopo il caso Helg, dopo qualche inchiesta che ha pescato più d'uno a fare il doppio gioco, don Ciotti ha detto che bisognerebbe ripensare la parola antimafia.
E' così?
"Anche le cose più nobili possono essere trasformate nelle cose più sozze dalle persone che approfittano del credito che c'è negli ideali nobili. Detto questo non è che si smetta di fare volontariato o assistenza agli immigrati dopo che c'è stata Mafia capitale con le cose che sappiamo".
C'è il rischio che questo screditi la parte sana?
"Sì, ma io sono sempre per denunciare, se l'antimafia vuole mantenersi sana deve denunciare tutte le forme di opportunismo al suo interno, tutte le distorsioni che possono nascere per effetto collaterale di strutture e politiche antimafia. Se la mafia è il portato delle cose peggiori: indifferenza, cinismo, corruzione, violenza noi non possiamo permetterci di portarci dietro nessuno di questi vizi, se no non siamo antimafia. Non possiamo impedire i tentativi di penetrazione, ma quando li troviamo dobbiamo denunciarli con la massima fermezza. E' la nostra vita a rendere credibile quello che facciamo".
Viviamo però in una società che fatica a distinguere le storie vere dal sentito dire. E' un problema?
"Sì, una delle cose più immonde del movimento No Tav non è dare del repressore a Gian Carlo Caselli è dargli del mafioso. Qualche volta mi hanno invitato a dibattiti, ho detto loro che non andrò finché non si scuseranno con Caselli, non per ciò che gli dicono sugli arresti, ma per aver scritto "Caselli baciamo le mani" sui muri. Questo è tipico dei terroristi, questo conferma presenze terroristiche, era tipico dei terroristi calunniare persone perbene costruendo il bersaglio".
Nel rimbalzare di troppe informazioni, senza saperle gerarchizzare, c'è il rischio di dare credito a notizie e persone inattendibili anche in tema d'antimafia?
"Il tempo è galantuomo, le persone perbene alla fine escono bene, ma bisogna prendersi responsabilità nel dibattito pubblico: qui c'è di tutto, con la telematica tutto va in giro e allora si rischia anche di accreditare antimafiosi farlocchi e questo è pericoloso. Alla fine la verità emerge, ma non è semplice".
Libera compie vent'anni. Ha fatto molto per la consapevolezza. Ma noto che di mafia nelle facoltà universitarie, anche di scienze politiche anche di giurisprudenza, corsi specifici se ne fanno pochi. Stiamo studiando abbastanza?
"No. Sono stato ieri alla scuola di giornalismo. Solo tre studenti avevano sentito parlare di Pippo Fava. Tutti gli altri non l'avevano mai sentito nominare. Se non conosco la storia del giornalismo come faccio a fare il giornalista? Se mi propongo di amministrare questa società, di fare politica, di avere responsabilità nelle associazioni di categoria, come faccio se non so cos'è la mafia? Non sanno che cos'è: se ne parla tanto e noi pensiamo che si sappia, ma occorre sistematicità nella costruzione del sapere. L'altro giorno mi sono portato un ragazzo nell'università itinerante. Veniva per suo interesse, ma non sapeva se in Campania ci fosse la camorra o la mafia. Anche chi ha funzioni pubbliche non sa abbastanza. Come uno che dovesse gestire l'economia senza sapere nulla di finanza".
Perché studiamo così poco la criminalità organizzata in un sistema universitario in cui sono proliferati a un certo punto ben 2.700 corsi con nomi diversi?
"C'è una rimozione che ha qualcosa di psicanalitico. Ci sono tutti gli elementi che dovrebbero portare alla crescita di strutture di studio e di ricerca, sarebbe come se davanti all'epidemia di ebola la ricerca medica la ignorasse: un'assurdità. C'è una rimozione che porta a non destinare risorse, ma non basta un convegno per lavarsi la coscienza".
A proposito di sapere tecnico, le inchieste sulla criminalità organizzata al di fuori dei territori noti - Milano, Roma, Torino - hanno avuto impulso quando sono arrivati in ruoli di coordinamento magistrati che avevano vissuto la Sicilia dei primi anni Novanta. E' una coincidenza?
"No non è affatto casuale. Ci sono degli schemi. Per combattere una malattia devo averla studiata, non si improvvisa la cura di un tumore. Boccassini e Pignatone, e dopo Prestipino, sono il portato indiretto della scuola di Falcone, che ha dato per primo una sistemazione teorica al problema. Anche chi lo ha contrastato all'inizio, come Pignatone, è un erede di quella cultura che ha saputo contagiare tutti i luoghi in cui c'erano persone serie che volevano confrontarsi con il contrasto alle organizzazioni mafiose. Alla direzione distrettuale antimafia di Milano, ora, si sta formando una scuola. Anche Caselli tornato a Torino ha portato il bagaglio della sua esperienza palermitana".
Il movimento antimafia è nato sull'onda emotiva delle stragi, chi oggi ha vent'anni arriva a Libera senza avere visto, forse avendo sentito. Che cosa li porta?
"La maturazione di una coscienza civile che va al di là delle emozioni, ma che è passata attraverso la narrazione le ha trasmesse alle generazioni successive: è uno dei meriti grandi di Libera raccontare e valorizzare tutte le storie per trasmettere un patrimonio di identità. E' aumentata la sensibilità verso certi temi, oggi l'avvelenare un territorio, il degradare un ambiente crea consapevolezza dei problemi anche senza che venga ucciso un eroe pubblico".
Ha parlato di beni confiscati, talvolta languono nel degrado. Che cosa chiederebbe alla politica, per avere un sistema più efficiente su questo fronte?
"Una struttura più agile, con più risorse, più preoccupata del compito che della carica e molto responsabilizzata sulla sua missione storica. E' stato speso un patrimonio per creare un sistema di informatizzazione dei dati che non c'è. Il problema è anche il criterio con cui si definiscono le persone, che guidano certe strutture, si valutano le professionalità o si procede per raccomandazione perché è un posto come un altro?".
Noi vediamo Libera crescere, ma cresce anche la corruzione. Com'è possibile, troppo piccola Libera?
"E' come se la società si fosse spaccata in due, di qua il movimento per la legalità, di là la corruzione, si è ridotta la zona intermedia. Ma i cambiamenti ci sono stati: a Casal di Principe si parla di camorra all'imperfetto, succede perché qualcosa è accaduto, perché la società civile ha sostenuto forze dell'ordine e magistratura. E quando parlo di società civile non parlo di associazioni di categoria, di ordini professionali, delle imprenditoria, parlo del movimento culturale sorto attorno ai beni confiscati, di Libera, dell'Associazione don Peppe Diana, degli imprenditori che non pagano il pizzo, degli insegnanti. Si è costituita un'altra società civile che prima non c'era. Il movimento sta costruendo un pezzo di Italia".
Qual è la vostra aspirazione da qui in poi?
"Allargare il movimento a pezzi crescenti di società, allargare ai temi sociali, al recupero dei ragazzi nelle carceri minorili: essere sempre più larghi, mantenendo i principi fermi".