Firenze ha commemorato a Palazzo di Giustizia alla presenza del presidente della Repubblica la strage di via Dei Georgofili che nella notte tra il 26 e il 27 maggio del 1993 ha ucciso cinque persone: Angela Fiume e Fabrizio Nencioni, le loro figlie Nadia e Caterina di nove anni e due mesi, lo studente di architettura Dario Capolicchio di Sarzana, provocando una quarantina di feriti e ingenti danni al patrimonio artistico, danneggiando la torre de’ Pulci, dove ha sede l'Accademia dei Georgofili, il museo degli Uffizi, a Palazzo Vecchio, la chiesa di S. Stefano, il Ponte Vecchio e molte abitazioni attorno. Due mesi dopo, il 27 luglio, quasi in contemporanea, altre due bombe sono esplose davanti alla Basilica di San Giovanni Laterano a Roma e in via Palestro a Milano, davanti alla Galleria d’arte moderna, uccidendo un vigile urbano, due vigili del fuoco e un cittadino marocchino che passava sul lato opposto e ferendo 12 persone. Il giorno dopo, il 28 luglio, un’altra vettura è esplosa davanti alla chiesa di San Giorgio al Velabro, sempre a Roma, causando una ventina di feriti.
Trent’anni dopo, la memoria e la percezione di quanto avvenuto rischia di escludere chi è troppo giovane per avere ricordi diretti. Abbiamo chiesto a Nando Dalla Chiesa, titolare dei corsi di Sociologia della Criminalità organizzata all’università statale di Milano di aiutarci a ricontestualizzare quegli eventi.
Perché, professore, lo Stato in quel momento ebbe la sensazione di essere sotto scacco come mai prima, persino di più che dopo le stragi di Capaci e via D’Amelio?
«In coincidenza con quegli eventi ci fu un’interruzione, accidentale della corrente elettrica a Palazzo Chigi, Carlo Azeglio Ciampi era presidente del Consiglio, e per un attimo si arrivò a temere il colpo di Stato. Una cosa simile in quel contesto avrebbe allarmato chiunque, anche perché si capiva, ed era secondo me l’obiettivo degli stragisti, che si colpiva tutta l’Italia, fisicamente, non nel modo indiretto in cui era avvenuto con le stragi di Capaci e via D’Amelio, con le quali il resto d’Italia capì che la mafia non era un problema della Sicilia, ma in modo diretto, dimostrando di poter mettere le bombe ovunque e di voler colpire al cuore del potere civile e religioso. Abbiamo saputo dopo che avevano pensato di colpire anche la torre di Pisa: il messaggio era vi colpiamo in quello che l’Italia ha di più sacro il suo patrimonio artistico laico e religioso, di fronte ai nostri traffici non c’è valore che tenga. Non la vita delle persone, non i simboli di una grande storia».
Farina del loro sacco?
«Qualcuno glielo ha suggerito sicuramente, non erano studiosi di storia dell’arte al punto da comprendere il valore simbolico degli Uffizi, di San Giorgio al Velabro o San Giovanni in Laterano. Sono attentati giunti all’attacco alla Chiesa, dopo l’anatema di Giovanni Paolo II alla Valle dei Templi, tanti fattori facevano capire che si era arrivati al limite estremo. Pensavamo che lo fossero stati gli attentati a Falcone e Borsellino, invece nella loro testa si poteva andare oltre, molto probabile che abbiano avuto suggeritori. Sul momento non si capisce, può sembrare altro. Io ero stato anche preso in giro all’epoca quando dissi in consiglio comunale: secondo me questa è Cosa nostra. Mi dicevano: tu la vedi dappertutto. Se una la conosce, capisce anche che sta pensando certe cose. Sono arrivati anche a concepire una strage allo stadio olimpico, che non è avvenuto per un problema tecnico. Poi sa il cielo che cosa li ha fermati».
Si sente evocare spesso una modalità stragista che evoca il terrorismo nero, quanto queste analogie sono da considerare suggestioni e quanto qualcosa di più fondato?
«Ogni volta che c’è una cosa sulla mafia, si tira fuori non solo la P2 che in certi casi ci sta totalmente, ma anche Gladio e l’estremismo di destra: secondo me qui dentro si può trovare qualcuno che aiuta, in queste storie c’è sempre un intreccio in cui viene fuori un personaggio “chiave”, che poi chiave non è, è semplicemente uno che sa fare le cose e ha un know how che può tornare utile a una strategia che non è la sua. Ma io non credo al terrorismo nero, questa è una vicenda di mafia. D’altra parte alcuni collaboratori, riscontrati e ritenuti attendibili, l’hanno spiegata benissimo. Nei racconti di chi è interno e che ha deciso di collaborare, può mancare un tassello perché una cosa non te la dicono per coprire qualcuno o perché la memoria è difettosa, può esserci la scelta di coinvolgere più uno rispetto a un altro, ma le dinamiche complessive sono chiare. A gennaio del 1993 è stato preso Riina, l’avranno anche venduto, ma è stato in carcere fino alla morte, papa Wojtila ha scagliato un anatema contro Cosa nostra, è quello il momento storico in cui Stato e Chiesa insieme agiscono alla violenza mafiosa e loro reagiscono colpendo in una lotta totale simboli religiosi e laici sul continente».
Firenze spazza via tutte le leggende su maggiori o minori riguardi, lì si capisce che quando si individua un bersaglio si accetta tranquillamente che nei danni collaterali ci siano due bambine di 9 anni e 50 giorni.
«Non hanno gettato bombe in mezzo alle persone come faceva il terrorismo nero, ma hanno accettato il rischio: se metti una bomba di notte, puoi pensare che ci sia poca gente in giro ma sai che può andarci di mezzo qualcuno. Ed è accaduto».
In poche settimane Firenze, Roma Velabro e San Giovanni, Milano via Palestro, ci sono differenze o sono attentati gemelli?
«Direi di no, i bersagli indicano l’intento di colpire tutto il Paese nel suo patrimonio artistico, il patrimonio religioso, l’idea che nessuno da nessuna parte possa più sentirsi al sicuro».
Chi oggi ha 30-40 anni può percepire tutto questo come lontanissimo, la strategia di inabissamento delle mafie sembra funzionare a pieno regime. Quanto preoccupa tutto questo?
«Il fenomeno mafioso sta scomparendo dal dibattito pubblico già prima non c’era consapevolezza, ora ancora meno. Guardiamo solo alla Commissione antimafia, quando mai abbiamo visto una scelta così? È capitato in passato ex post si siano valutate come discutibili le scelte compiute in corso d’opera da alcuni presidenti, ma partire già così no».
Indipendentemente dalle idee servirebbe un diverso profilo?
«Ho scritto una provocazione sul Fatto. Ho scritto: continuiamo a fare i supplenti, poi si viene rimproverati perché ci si fa carico. Se non possiamo garantire un presidenza della commissione antimafia prestigiosa, attendibile, qualificata, insospettabile davanti al Paese, chiudiamo baracca e burattini. Mettiamo insieme le commissioni antimafia dei Comuni, facciamo rete e arrangiamoci, abbiamo molte più possibilità di informarci, non c’è più solo la relazione della commissione antimafia ma quella della Dia, quella Dna, ci sono le Università che finalmente si occupano di questo tema».
Mentre le direzioni distrettuali antimafia e la Dna lanciano un allarme di pochi controlli preventivi nella PA - ne parlava il procuratore nazionale antimafia pochi giorni fa - e di una mafia sempre più imprenditrice e capace di penetrare l’economia legale, con effetti nefasti, a Palermo il 23 maggio sono diventate conclamate le tensioni che attraversano l’antimafia anche nel contesto della commemorazione più simbolica.
C’è il rischio che questo generi sfiducia nell’antimafia e dia un alibi a chi preferisce non parlarne?
«Purtroppo sì, così è».