Ha sempre messo molto di sé e delle sue idee nel cinema. Mai però Nanni Moretti aveva raggiunto un livello così struggente di sincerità. Mia madre, il nuovo film a che uscirà giovedì prossimo, è più di una seduta psicoanalitica davanti alla cinepresa. Più di un artificio alla Woody Allen, tanto per intenderci. Trattandosi anzi di una storia di cinema nel cinema, alla mente vengono altri paragoni: Fellini naturalmente, ma anche François Truffaut. Quel regista che si affanna a fare il suo lavoro sul set, tra una corsa e l’altra all’ospedale dove mamma Ada si sta spegnendo, pur essendo una donna (la bravissima Margherita Buy) è senz’altro il suo alter ego, il Moretti alle prese con la lavorazione di Habemus Papam proprio nelle settimane in cui sua mamma Agata si stava spegnendo. Ed è come se Nanni cercasse riflesso di sé stesso nello specchio dell’anima, mettendosi completamente a nudo davanti allo spettatore. Di questo estremo coraggio gli va dato atto. Anche accettando l’ennesimo spiazzamento nella sua personalissima carriera.
Dopo tanti film d’impegno e di feroce autocritica sociale (da Ecce Bombo e Palombella rossa fino a Il caimano); dopo la delicata e sensibile intrusione in un mondo della fede diviso, a suo modo di vedere, tra pompose istituzioni e solitudini dell’anima (Habemus Papam), Moretti torna a confrontarsi col più grande e difficile dei misteri umani: la morte. Ma non lo fa per una tragedia occasionale, la scomparsa di una persona amata per incidente o malore, un dramma così improvviso e assurdo da giustificare ogni ribellione, come ha già narrato ne La stanza del figlio (il suo film più bello, premiato nel 2001 a Cannes con la Palma d’oro). Stavolta Moretti guarda in faccia la morte inevitabile di chi è giunto sfinito alla fine del cammino. Quella di una madre, per esempio. Illusorio che alla morte si possa giungere quieti, preparati. Specie se quella che vedi morire è la tua mamma.
Semplice, lineare. Quasi banale. Se non fosse che Moretti riesce a catturare lo spettatore, a farlo entrare nella pelle della sua ansiosa regista e a sballottarlo nel frullatore di sentimenti e sensazioni della normalissima vita quotidiana. Una vita, però, di cui s’intravvede la fine. Sullo schermo è un continuo, fluido alternarsi di scene collettive (le riprese del film che Margherita sta cercando faticosamente di concludere) e sequenze intimiste (la regista che ogni sera corre in ospedale da mamma Ada confrontandosi col fratello Giovanni sul da farsi). Realtà e ricordi s’intersecano e si confondono. Mentre la regista s’infuria col magniloquente attore americano che dimentica sempre le battute (perfetto John Turturro), Margherita figlia rammenta: ad esempio, la rudezza con cui impedì alla madre di continuare a guidare. Più passano i giorni, più si incasina il film, più la malattia avanza e più Margherita si sente inadeguata. Al cinema, alla vita, a tutto.
Significativo che a interpretare il fratello Giovanni, serio e riflessivo, sia lo stesso Moretti in un ruolo che pare scritto per contrappasso. Misurata, umanissima Giulia Lazzarini nei panni di Ada, la mamma morente. Ma il peso del film è sulle spalle di Margherita Buy i cui grandi occhi chiari, sgranati di fronte alle incomprensioni della vita, arrossati per l’assurdità del dolore, sembrano davvero specchio di un’anima senza pace. Ed è la cosa che, alla fine, più colpisce di Mia madre: la totale assenza di qualsiasi conforto morale, di una qualche visione religiosa. Mai una speranza, un’invocazione, una preghiera. Non solo dei protagonisti ma neppure tra gli altri personaggi. Troppo. Un ateismo, un vuoto incolmabile che Moretti ha l’onestà di non camuffare. Come quando, durante l’intervista, alla parola ateo disse di preferire la definizione di non credente, per poi aggiungere: “Non sono credente e mi dispiace”. Ecco quello che avrebbe potuto essere il titolo del film.
All’uscita dalla proiezione allo spettatore restano le risate per alcuni momenti d’irresistibile autocritica cinematografica, come le bizze dell’attore americano. Resta lo stupore per la cruda sincerità di un Moretti smarrito che arriva a dire: “Io non capisco più niente”. Soprattutto, resta il gusto amaro di un bel film costruito attorno allo sgomento della morte. Smarrimento raccontato attraverso piccoli segni quotidiani. La pietosa litania con cui il fratello, per persuaderla che in ospedale è stata una buona giornata, elenca a Margherita ciò che la mamma ha mangiato: “Tutta la minestrina, il petto di pollo e perfino una banana” (a chi di noi non è capitato?). L’irriverente confessione di mamma Ada alla nipotina, in un momento di lucidità: “La cosa divertente è che più invecchi e più pensano che tu sia scema. Invece, capisci di più perché hai tempo per pensare”. Poi gli occhi rossi e umidi di Margherita che, alla fine, guarda nel vuoto rivolgendosi ad Ada: “ Mamma, a che stai pensando?”. “A domani”, la risposta. Saranno queste le impressioni, le emozioni che assaliranno critici e spettatori al prossimo Festival di Cannes? Difficile dirlo. Facile invece prevedere che Mia Madre sulla Croisette ci sarà. I francesi adorano Moretti. E noi, comunque, faremo il tifo per lui. Per la sua spiazzante, dolente sincerità.