Il Festival Biblico è ufficialmente partito con la lectio magistralis inaugurale del cardinale Gianfranco Ravasi, presidente del Pontificio Consiglio della Cultura e per la quarta volta applauditissimo ospite della kermesse. Se l’anno scorso il compito di inaugurare l’ultima e più importante parte dell’iniziativa fu affidato al cardinal Dionigi Tettamanzi , quest’anno è il Presidente del Pontificio Consiglio della cultura a intrattenere un migliaio abbondante di persone in un duomo di Vicenza gremitissimo. Il flusso delle generazioni, la vita e la fede nel fluire del tempo, l’incapacità di noi uomini e donne moderni di generare, il valore del silenzio. Questi in breve i punti toccati dal cardinal Ravasi. Di seguito la sintesi del suo intervento.
Nella prima parte della sua meditazione Ravasi, commentando i primi versetti del Salmo 78, ha ricordato che tutti noi siamo stati generati e molti sono stati o saranno “generanti” di altri uomini nel fluire della storia e del tempo. La Bibbia, ha detto Ravasi, è un grande libro di uomini e di donne, di madri, padri, figli e figlie, di clan, di famiglie e di storie di popoli, di maestri e discepoli. Di anelli genealogici di felicità e di tormento. Dio stesso genera il Figlio, Cristo, come diciamo ogni domenica nel Credo. Lo stesso Nuovo Testamento, il Vangelo di Matteo, inizia con una genealogia. La Bibbia, un libro di generazioni umane e divine, insomma, che ha al centro una realtà di generazione ininterrottamente vivente fino a oggi.
Il biblista ha concentrato innanzitutto la sua riflessione sulla filologia delle parole bibliche, importanti perché esprimono realtà profonde. Figlio, ad esempio, deriva da una parola sanscrita che significa “allattare” e in latino significa “libertà”. Generare, insomma, è essere liberi. Il libro del Qhoelet (1,4), ad esempio, dice che una generazione se ne va e un’altra subentra su una terra eternamente ferma. L’autore biblico qui è acido: la terra assiste indifferente alla morte e alla nascita delle generazioni, teatro muto del nostro muoverci. Quando parliamo delle generazioni parliamo allora del tempo, della storia, di qualcosa che passa e scorre. Lo ricorda anche il Siracide, scritto nel II sec. A.C.: “Come foglie spuntate su albero verdeggiante l’una cade e l’altra sboccia, così sono le generazioni di carne e sangue. Una muore e l’altra nasce”. Il filo del tempo non si spegne mai e la storia delle generazioni, in ultima analisi, è la storia del nostro stesso limite.
Ma il fluire delle generazioni è anche teofania di Dio. La Bibbia non ci invita a decollare verso cieli mitici, un ambiente ineffabile, impalpabile... No, il Dio biblico ha deciso di svelarsi nelle storie umane ed è lì che occorre cercarlo. Gn 1,27 ha un parallelismo per cercare di rendere il concetto più incisivo: “Dio creò l’uomo a sua immagine, a sua immagine lo creò, maschio e femmina li creò”. Dio, insomma, è maschio e femmina e l’immagine più vicina all’essenza di Dio è l’uomo e la donna che insieme generano e, come Dio, dal “nulla fanno essere il creato” attraverso un atto d’amore.
L’uomo e la donna continuano l’opera creatrice di amore di Dio offendo a questi l’occasione di svelarsi attraverso il succedersi delle generazioni. Per questo ad Abramo è fatta la promessa fondamentale del figlio: “conta le stelle … tale sarà la tua discendenza, renderò la tua discendenza come la sabbia della spiaggia”. La generazione di uomini e di donne allora è veramente la trama della vita: della nostra esperienza umana e spirituale, nella storia, non possiamo non essere immessi in questo flusso in cui scorre Dio stesso. Le generazioni, in definitiva, sono la sede della teofania.
Nella seconda parte delle sua meditazione Ravasi, facendo riferimento al capitolo 12 del libro dell’Esodo, ha ricordato che la pasqua ebraica narrata nell’Esodo rappresenta la sequenza delle generazioni, un memoriale da celebrare “di generazione in generazione”, un luogo, anzi “il” luogo privilegiato in cui i padri insegnano ai figli la storia della salvezza. Le generazioni sono allora come il seme dell’umanità credente, fosse pure, come capiterà spesso bella Bibbia, di generazioni adultere e infedeli, che non sanno conservare l’alleanza con Dio. L’aggadah, la narrazione della fuga dall’Egitto, è ancora oggi un intreccio di voci, di domande e risposte tra padri e figli. La giovane generazione chiede all’antica il significato del rito per poterlo poi narrare a sua volta alla generazione successiva. Il tema dell’educazione, insomma, si intreccia strettamente con quello della generazione. Lo stesso Concilio Vaticano II ha definito i genitori i primi maestri della fede.
La generazione è dunque l’orizzonte fondamentale entro cui bisogna annunciare la fede. È triste vedere oggi che le generazioni sono mute tra loro, la generazione più vecchia è senza parole, forse ha perso il gusto di quella voce che, quando era piccola, le parlava di Dio, degli eventi salvifici. La stessa società non ha più gli anelli genealogici della narrazione con tutto il calore e la passione di colui che sa di custodire un tesoro. Siamo allora una generazione di smemorati, non ci si raccontano più le grandi cose, i grandi eventi, siamo tutti protesi sul quotidiano, sul giorno che alla fine si spegne. “Chi non ricorda non vive”, diceva il poeta Pasquali. Ed Elliott, ben 70 anni fa, commentava: “Noi stiamo dimenticando il nostro cristianesimo”.
La nostra disgrazia sarà che saremo una generazione senza volti, senza identità. L’appello allora è di custodire di generazione in generazione le meraviglie del Signore perché i nostri figli abbiano a narrare a loro volta le meraviglie del Signore ai loro figli. Noi siamo come nani sulle spalle di giganti. La Bibbia dice che le generazioni sono il luogo dove custodire il passato e costruire il futuro. Se il messaggio di fede non verrà consegnato alle generazioni future, questo significa che non saremo capaci di sottrarci al vuoto e all’inconsistenza del nulla.
Tre indicazioni per concludere: ne “Il Profeta”, opera molto vicina alla sensibilità biblica, Kalil Gibran dice che i figli non ci appartengono, possiamo amarli ma non costringerli ai nostri pensieri perché loro hanno i loro pensieri. Questo dice come le generazioni ci ricordino il limite del tempo. è per noi una lezione di umiltà. Le generazioni sono mille e altre mille, ma noi non possiamo abitarle tutte. Seconda considerazione: la prima lettera di Giovanni dice che Cristo è stato generato secondo la carne, è stato generato in eterno e che chiunque ami è stato a sua volta generato e conosciuto. Dio è amore. Chiunque crede che Gesù è il Cristo è stato generato, e chi ama colui che ha generato sarà amato da colui che è stato generato. Fede e amore dunque si intrecciano strettamente.
E infine un riferimento al regista Kieslowski, che ha dedicato 10 film a tutti e 10 i comandamenti. “Ho scelto il decalogo perché lo violiamo ogni giorno ma rimane lì, ininterrottamente come muto parlante” ha detto in un’intervista. E così è la voce di Dio che risuona dal Sinai offrendo a Mosè i comandamenti, che continuamente incide ferite alla nostra superficialità, al vuoto che ci circonda.
L’invito allora è, come scrisse il teologo protestante Dietrich Bonhoffer subito prima di morire per mano dei nazisti, di fare silenzio: prima di ascoltare la Parola di Dio e subito dopo averla ascoltata, perché i nostri pensieri siano già rivolti a Dio e perché Egli può parlarci anche dopo che l’abbiamo ascoltata; ma il silenzio è necessario anche la mattina presto, perché Dio deve avere la prima parola del giorno, e la sera, prima di coricarci, perché anche l’ultima parola appartenga a Dio.
Il Festival Biblico compie sette anni. Partito quasi per scommessa nel 2004 su iniziativa del Centro culturale San Paolo di Vicenza, gestito dai paolini, e della diocesi di Vicenza, questa iniziativa, che richiama in media 30mila persone all’anno, contempla quest’anno 130 eventi organizzati tra Vicenza e la provincia del ridente capoluogo berico. Lo scopo del Festival è vario: aiutare a incontrare la Sacra Scrittura, parola ultima di Dio per l’umanità, far incontrare le persone, aiutarle a riflettere, portare in provincia quanto di meglio nella cultura e nella spiritualità esista in italia.
Ogni anno il tema del Festival varia, cercando in qualche modo di agganciarsi all’attualità, quasi a dire che la Bibbia non parla di un ‘mondo altro’ ma “del” e “al” nostro mondo: se l’anno scorso messa a tema era l’immigrazione (“L’ospitalità delle Scritture”), quest’anno il soggetto prescelto, argomento semplice e complicato allo stesso tempo e in linea con il recente documento della Conferenza episcopale italiana “Educare alla vita buona del Vangelo”, è l’educazione, altissima attività fatta di continui “atti di trasmissione” dai padri ai figli. Il titolo è strettamente biblico ed è mutuato direttamente dalla Bibbia: “Di generazione in generazione”. Dieci giorni di eventi tra Vicenza e provincia, dal 20 al 29 maggio con il clou negli ultimi 4 giorni, rappresentano una ghiotta occasione per fermarsi e meditare, confrontarsi, contemplare, giocare e tanto altro ancora. Quattro sono le aree tematiche in cui sono raggruppati gli eventi: generare alla fede, alla vita, alla condivisione e alla bellezza.
Il programma è scaricabile integralmente direttamente dal sito.
«Il codice maschile, quello che caratterizza il sentire lo stile educativo del padre, è sicuramente l’incoraggiamento». Osvaldo Poli, noto psicologo e psicoterapeuta curatore della rubrica “Un adolescente in casa” di Famiglia Cristiana, ha sintetizzato così la dimensione più intima della figura paterna nel corso della lectio magistralis dal titolo “La figura paterna di Dio, la figura paterna dell’uomo”, tenuta ieri sera insieme al teologo Piero Coda al Festival di Vicenza.
La figura del padre, è cosa nota, è attualmente in crisi nelle società occidentali a causa della sua debolezza, della sua rinuncia a svolgere fino in fondo i compiti di accompagnamento dei figli nella vita, soprattutto nei suoi aspetti più dolorosi e faticosi. Andando nei dettagli Poli ha precisato che «il padre dà la forza al figlio di non aver paura di accettare il dolore, la rinuncia, il sacrificio necessario per rendere buona la vita. Il segno del padre infatti è la ferita. Per fare questo deve “credere” in qualcosa, avere delle convinzioni che lo sorreggono mentre aiuta il figlio ad accettare l’aspetto doloroso e impegnativo dell’esistenza. Deve credere che questo sia davvero vantaggioso per il figlio e che lo possa realmente realizzare e rendere felice. Il padre è una figura di fede. Deve credere che vi sia qualcosa che merita il dolore del figlio, per cui valga la pena chiederli di sacrificarsi senza dubitare del proprio amore per lui».
Monsignor Piero Coda, preside dell'Istituto Universitario Sophia di Loppiano, ha trattato la parte “divina” della paternità: «Il cuore dell'esperienza di Gesù è il suo rapporto col Padre, l'intimità di una comunicazione piena e permanente con lui: una realtà che fa da filo conduttore di tutta la contemplazione dell'evento di Gesù Cristo contenuta nel quarto Vangelo». Precisando meglio ha poi specificato che la predicazione di Gesù, la forza interiore del suo messaggio e del suo ministero messianico sono dati dal suo rapporto col Padre. «La preghiera del Padre Nostro ci dice non solo che Gesù muove – in tutto ciò che fa e dice – da questo rapporto di comunione intima con Dio, di cui ha coscienza d'essere l'Inviato, ma anche che egli vede il suo ministero come la trasmissione e la partecipazione agli altri di questo rapporto». «Purtroppo», ha concluso Coda, «la novità è tanto grande che quasi si direbbe ancora non è riuscita a rovesciare i nostri cuori…. Abbà, il nome affettuoso del figlio verso il padre, non è un nome in più o diverso di Dio, ma è la risposta che noi, in Gesù, siamo chiamati a dare per dono a quello sguardo infinito e onnipotente di amore e misericordia che Dio ha per ciascuno di noi». Si tratta, insomma di «credere che Dio è Padre, di affidarsi realmente a Lui e sino in fondo, significa di fatto vivere da figli. Non schiavi, ma figli: liberi, adulti, responsabili, eppure al tempo stesso bambini nello stupore del cuore e dell’intelligenza. E perciò fratelli, costruttori di pace e di giustizia nella società e nel mondo».
Un aperitivo davvero gustoso quello offerto da Lidia Maggi, pastora battista, che al Festival Biblico di Vicenza ha intrattenuto il numeroso pubblico allo "Spazio incontri" di piazza Biade intervellata armonicamente dalle musiche degli studenti del Conservatorio “A. Pedrollo” di Vicenza. Il tema, insolito, è provocante: “La genealogia di Gesù, una storia di donne: Rahab e Betsabea”. Una “genealogia al femminile”, insomma, con il focus puntato su due personaggi al centro della breve riflessione, la prostituta Rahab e Betsabea, la moglie di Uria e poi di Davide. Due figure per dire che alle origini del Figlio di Dio non ci sono sempre storie edificanti ma anche storie di peccatori e peccatrici. La storia di queste due donne mostra, in altri termini, come noi siamo certamente la memoria delle nostre origini, non possiamo liberarci da quello che siamo stati. Tuttavia possiamo cercare di essere meglio, di andare oltre agli errori del passato. Gesù ha degli antenati scandalosi, ma è proprio attraverso di loro che Dio ha scritto la storia della salvezza con l'Incarnazione di Gesù. Di seguito una sintesi dell’intervento di Lidia Maggi.
«All’inizio del Vangelo di Matteo è riassunta tutta la genealogia di Gesù. Uomini e donne giusti ma anche uomini e donne peccatori. Durante la sua predicazione Gesù ha avuto una difficoltà più grande di altre: non quella di convertire gli ingiusti ma piuttosto quelli che si sentono giusti, i più difficili da convertire. Puttane ed esattori delle tasse precederanno i presunti giusti nel regno dei cieli, diceva Gesù a gran voce. Nella genealogia di Gesù c’era una prostituta, grande esempio di fede accanto ad Abramo: Rahab. Questa prostituta entra in scena alla vigilia dell’entrata nella terra promessa del popolo di Israele. Giosuè, che ha sostituito Mosè alla guida di Israele, non è profeta come Mosè stesso ma un condottiero e sa che prima di conquistare un territorio occorre esplorare. Allora manda due esploratori a Gerico, la città potente e fortificata: e come Dio darà loro in mano la città? Le due spie entrano in casa da una prostituita: il re di Gerico viene a sapere della loro presenza, e manda le guardie a cercarle a casa di Rahab, che invece li nasconde sul tetto con la promessa di essere salvata al momento dell’attacco: “Vi chiedo di proteggermi perché siete un popolo potente e abbiamo sentito quello che Lui ha fatto tramite voi e siamo stati presi da paura”. Rahab, dopo aver sviato le spie verso il Giordano, cala le due spie dalle mura della città con la fune e dà loro indicazioni di dirigersi verso il monte, suggerendo loro di fermarsi lì tre giorni in attesa che le acque si calmino. Rahab, la prostituta, diventa una servitrice dei disegni di Dio perché permette al suo popolo di realizzare la grande promessa divina: la conquista della Terra Promessa. Giosuè, il condottiero, sente infatti attraverso il resoconto delle due spie salvate da Rahab che Dio sta agendo a favore del popolo e si prepara ad attraversare il Giordano.
La seconda storia è quella più scandalosa della genealogia di Gesù, contenuta nel secondo libro di Samuele. Una semplice cronaca di corte, questo libro, che come tutti i racconti di questo genere narra le grandi imprese del re: ma qui la Scrittura fa il “contropelo” alla storia e qui, nel caso specifico, lo fa con il re più amato da Dio, il re Davide. Una storia di intrighi di corte di un re che trama contro il suo più fido soldato, Uria l’Ittita. È la storia della seduzione di Davide a Betsabea, la moglie di Uria, con quest’ultima ch rimane incinta del re e questi che, volendosi “liberare” del problema, vuol far ascrivere la gravidanza a Uria attraverso degli stratagemmi, tutti falliti, finché si rassegna a farlo morire in battaglia. Morto Uria, re Davide “si rilassa” e fa il gran gesto di “adottare” la vedova sposandola. Comincia così la vita nuova di Betsabea: il primo figlio avuto da Davide muore ma le è concesso un secondo figlio, Salomone, il futuro re saggio da cui anche Gesù deriva».
“L’interiorita’ maschile: le solitudini degli uomini”. Un tema “caldo”, l’incapacità degli uomini, di tanti uomini, di guardarsi dentro, di sentire la propria interiorità, di vivere a partire da essa, un tema che Duccio Demetrio, ospite sabato sera di fronte a circa trecento persone che affollavano lo “Spazio incontri Piazza Biade” nell’ambito del Festival Biblico di Vicenza, ha fatto oggetto di uno dei suoi ultimi libri (“ L’interiorita’ maschile: le solitudini degli uomini”, appunto).
Duccio Demetrio è docente di filosofia dell’educazione all’Università Bicocca di Milano e direttore scientifico della Libera Università dell’Autobiografia di Anghiari. E proprio da quest’ultima realtà, di cui Demetrio è stato fondatore insieme a Saverio Tutino per sviluppare attraverso l’autobiografia una vera e propria “pedagogia della memoria”, il filosofo ha rotto il ghiaccio: «L’autobiografia nasce dal desiderio che ci viene a volte di fare pensiero su di sé, di sapere dove si è, chi si è diventati, soprattutto dopo occasioni perdute o tragedie vissute. È quasi un ripatteggiamento con quanto si è stati. Questo dà una sensazione di quiete, tutto nell’autobiografia viene contenuto perché essa soddisfa il desiderio di una ricerca di senso ed è esercizio di accoglienza di sé». Autobiografia come “prendersi cura di sé”, un bel dono che si può fare a sé stessi.
Poi Demetrio è entrato nel cuore del discorso, l’interiorità maschile: «”Interiorità” è un concetto sfuggente perché evoca lo spirito, qualcosa che sfugge, qualcosa che però troviamo in tutte le esperienze religiose. Evoca quindi il senso della mancanza. L’interiorità non può mai essere completamente esaurita, completa ma è qualcosa che “ci” e “si” trasforma continuamente. Per questo l’interiorità richiede “educazione”, cura». Il libro di Demetrio viene dopo anni di ricerca intorno a questo tema ed è significativo che esso cominci con un’esplicita invettiva contro i comportamenti tipicamente maschili, che disorientano e mettono a disagio. «Per me è stato importante capire se noi uomini siamo oggi abitati da comportamenti non adatti alle esigenze della vita interiore. Il libro pone contrapposizione tra maschi e uomini: la mia tesi, contestabile, è che i maschi a volte non sono riusciti ad evolvere a uomini. Maschi che si vantano delle loro malefatte, che usano della libertà per farsi i loro comodi, che non sanno cos’è il senso della colpa, che se la prendono con le donne usandole …. Vedo troppi maschi così e però vedo anche uomini, in una netta minoranza che per molti versi possono riconoscere le loro qualità nelle beatitudini evangeliche: umili, timidi, senza voce, solitari, frutto di una fatica profonda e di un dolore che li hanno cambiati…».
Un uomo moderno, insomma, incapace di guardarsi dentro: «L’interiorità è il nostro invisibile: i maschi non la tollerano, hanno sempre bisogno di vedere, di toccare; altri però, che io chiamo “uomini”, seguono le utopie, la poesia, la ricerca di qualcuno che non potranno mai raggiungere, sempre ammaliati dall’enigma dell’esistenza. Sono uomini che pongono a sé stessi domande di senso, senza spargere idee che li portano al denaro, uomini che vogliono essere soli per trovare qualità desuete in questi tempi, che non vogliono seguire gli istinti per realizzarsi, che comprendono in un istante le parole poetiche. L’interiorità è abitata dal senso religioso della vita, dalla ricerca, dalla domanda filosofica, dal senso letterario, estetico dell’esistenza». Poi, un riferimento alla Bibbia: «Mi sono chiesto: che tipo di educazione all’interiorità hanno avuto gli uomini della Bibbia? E mi sono risposto che la cecità è importante: lo è, ad esempio, nel rapporto tra Tobi e il figlio Tobia, oppure ricord la cecità metaforica di Giona nel ventre della balena, di Isacco, che si trova a muoversi a tentoni, di Giacobbe, di Giobbe, di Giuseppe … La cecità diventa il luogo di fondo che ci rinvia alla necessità di sostare nell’ombra, a guardarci nel di dentro anche se questo ci porta pena. C’è, insomma, una cecità che ci trasmette il bisogno di crescere, di divenire».
Un altro segno distintivo degli uomini è che non sanno ricercare la solitudine: «Ne abbiamo paura ma non dobbiamo confondere la solitudine con l’isolamento. Mi sembra che noi, come maschi, stiamo tradendo la storia delle nostre solitudini migliori, vogliamo sempre "fare squadra”. Saluto con riverenza invece gli uomini che seguono strade solitarie, il piacere fisico e corporeo di stare soli purché questo non avvenga all’insegna della competizione, come succede spesso oggi. Dobbiamo riscoprire il valore salvifico ed emancipativo della solitudine, di una sana camminata nei boschi, del camminare a zonzo, del perdersi per strada. Dobbiamo accettare le antiche leggi della solitudine, camminare lentamente, stare in silenzio, sostare su un senso antico... ». I maschi quindi devono andare a scuola dalle donne: «Non riusciamo a piangere, non riusciamo a dire a un amico quello che pensiamo, quello che abbiamo dentro di noi… Come uomini dobbiamo andare a scuola dalle donne. Nel mondo femminile la capacità di cura, comunicare tra loro, di vivere la solitudine senza scivolare nell’isolamento è molto forte. In alcune componenti del mondo giovanile ci sono segnali fecondi in questo senso. Mi chiedo come i maschi potranno affrontare la vecchiaia in serenità, senza coltivare la vita interiore».
Infine, dal pubblico, una domanda: come trasformare i maschi in uomini? La riposta, secca: «Consiglio alle donne di fare un test ai loro uomini: regalate loro un libro di poesia. A seconda della fine che fa il libro potrete accertare che tipo di uomo avete».