Ricorre oggi, giorno 21 ottobre, la memoria liturgica del Beato padre Pino Puglisi, proclamato martire il 25 maggio del 2013. Padre Puglisi era stato assassinato da quattro sicari della mafia il 15 settembre del 1993, giorno del suo cinquantaseiesimo compleanno, davanti al modesto ingresso della casa popolare che, nel quartiere di Brancaccio, a Palermo, aveva per lunghi anni condiviso con i genitori e poi con il solo padre, anziano e bisognoso di assistenza. Ma ciò che vorremmo sottolineare è un fatto che solo in apparenza attiene alla, chiamiamola così, burocrazia dei santi. Ovvero, che la memoria liturgica del “piccolo prete fra i grandi boss”, come recita il titolo del libro che Francesco Anfossi, collega di Famiglia Cristiana, gli dedicò quasi subito per le Edizioni Paoline, non cade nella ricorrenza del martirio (la data del 15 settembre è già dedicata alla Vergine Addolorata) ma in quella del battesimo del sacerdote, avvenuto nella chiesa di Santa Maria della Pietà alla Kalsa, il cuore della vecchia Palermo. Questo per dire una cosa semplice e importante. Alla figura del sacerdote instancabile e generoso, sempre pronto ad assumersi gli incarichi più gravosi e ad ascoltare tutti, martirizzato da una cosca che, spietatamente ma anche maldestramente, vedeva nella sua azione una sorta di contropotere del bene, sono stati dedicati ottimi libri (una cinquantina, finora), tesi di laurea, analisi teologiche, e infiniti articoli di giornale. Cosa buona e giusta, anzi provvidenziale, perché di un eroismo così cristiano e insieme repubblicano si hanno davvero pochi uguali.
Ma il sottoscritto, che negli ultimi tempi ha avuto la fortuna di entrare in contatto con la scia di padre Puglisi e con le opere magnifiche del Centro di accoglienza Padre Nostro da lui fondato poco prima della morte e portato avanti con sforzi enormi da Maurizio Artale e dai suoi, ha per ora capito bene una cosa sola. Che a molti risulterà banale e forse lo è, ma che a me ha dato sensazioni forti. La riassumo così: neanche i santi nascono sotto i cavoli, nemmeno gli eroi diventano tali da soli. Interrogare la vita e la morte del Beato padre Puglisi significa scoprire un uomo, una famiglia, un ambiente, un’epoca. In quest’ordine e non al contrario.
Che cos’ha voluto dire, per esempio, avere una madre come la signora Giuseppina, con la sua fede non solo salda ma pure tenace, indifferente alle fatiche e ai sacrifici? Avere un fratello maggiore, Gaetano, diventato assai presto meccanico e pronto a rinviare il matrimonio fino al giorno in cui avesse potuto celebrarlo il giovane fratello appena diventato prete? Avere un altro fratello più grande, Nicola, toccato insieme dal genio artistico e dalla malattia, scomparso a soli 15 anni? E tutti quei ragazzi incontrati nelle scuole che il Beato, in vita detto Treppì (padre Pino Puglisi), non si stancò mai di frequentare, istituti professionali e licei, rampolli della buona borghesia siciliana o temperamenti difficili da contenere e recuperare che fossero? Molti altri tasselli si potrebbero nominare. Persone, cose, fatti.
In poche parole, però, la vita del martire della Chiesa Pino Puglisi pare insegnare che la santità non è l’inizio di qualcosa ma il risultato di tante cose. Il precipitato di un processo chimico in cui interagiscono uomini e donne che portano, inconsapevoli o no, una piccola porzione delle sostanze e dei reagenti necessari a fare, appunto, il santo. Il che non cambia la sostanza del martirio ma contribuisce a renderci tutti un po’ più consapevoli e, forse, responsabili.