Credere è difficile, ma essere atei non
lo è da meno. C’è qualche motivo perché
atei e credenti si confrontino sulle
loro reciproche difficoltà, sui loro
pensieri, parole, opere e scelte, in modo che
forse possano trovare armonia di argomentazioni
senza rinunciare ognuno alla propria
identità? Oppure devono continuare a vivere
su sponde differenti, ignorandosi o peggio
lanciandosi anatemi? La sfida è davvero straordinaria e i risultati
lo possono essere altrettanto. La sfida l’ha
lanciata Benedetto XVI poco più di un anno
fa nel discorso alla Curia romana: «Al dialogo
con le religioni deve oggi aggiungersi soprattutto
il dialogo con coloro per i quali la religione
è una cosa estranea. Io penso che la
Chiesa dovrebbe anche oggi aprire una sorta
di cortile dei gentili».
Adesso quel cortile apre le porte a Parigi alla
fine di marzo, quando intellettuali agnostici
e credenti daranno vita al confronto. Ma altri
“cortili” si costruiranno in Europa, nelle
Americhe, forse anche in Africa e in Asia per
iniziativa del Pontificio consiglio della cultura,
presieduto dal cardinale Gianfranco Ravasi,
uno che di dialogo con intellettuali fieramente
laici se ne intende.
Eminenza, cos’è questo cortile?
«Il luogo di un incontro, ma anche una metafora.
Credenti e non credenti abitano la
stessa terra e vivono nelle stesse aule delle
università. Ma c’è il rischio che si isolino nel
proprio recinto sacrale o laico, ignorandosi
se va bene, o prendendosi a sberleffi nella
maggior parte dei casi. Allora bisogna trovare
uno spazio comune, abbattere muri di separazione
nella cultura e negli atteggiamenti.
Noi ci vogliamo provare».
Volete convertire gli atei?
«Assolutamente no. Non c’è alcuna attesa
di conversioni, né di inversioni di cammini
esistenziali di alcuno. Vogliamo solo proporre
un dialogo che eviti il vuoto, gli stereotipi,
la banalità. Le voci possono essere anche agli
antipodi, ma devono saper creare armonia e
migliorare la qualità del dibattito culturale,
cioè la vita di tutti».
Lei ci ha già provato a Milano quando era
a capo della Biblioteca Ambrosiana. L’ha
suggerita lei l’idea al Papa?
«No. Il Papa viene da una cultura, quella tedesca,
dove la teologia è considerata scienza
a tutti gli effetti e in Germania un cortile è stato sempre aperto. Ma ha visto che purtroppo,
in Europa soprattutto, tra laici e cattolici il linguaggio
è sempre più autoreferenziale. Se
manca il dialogo non si va da nessuna parte».
Però lei ci aveva provato?
«Sì e devo ammettere che a Milano negli
anni passati si è fatta qualche prova di cortile
dei gentili. Metà dei miei amici non sono credenti.
Continuo a discutere anche a Roma al
Pontificio consiglio con laici come Giulio Giorello
e Umberto Eco».
Perché la Chiesa fatica a discutere, nonostante
il Concilio?
«Dobbiamo ammettere che anche la Chiesa
ha contribuito a erigere muri, o almeno
siepi, di separazione. Credo per unmalinteso
senso di autoprotezione o di autodifesa».
Ma anche i laici hanno concimato siepi...
«Sì. La teologia non èmai stata considerata
un pensiero rigoroso, come filosofia o scienza.
La cultura cattolica è ritenuta più fluida e
meno consistente dal punto di vista del metodo
e dei paradigmi rispetto a quella laica».
Davvero gli intellettuali laici sono tutti
fieramente anticlericali?
«No. È una convinzione sbagliata che nasce
dal radicarsi di quello che io chiamo “ateismo
nazional-popolare”, rappresentato da
associazioni e personaggi pittoreschi, intellettuali
da salotto televisivo. Lì volano gli schiaffi
e gli sberleffi e tutto fa la gioia dei fondamentalisti
in entrambi gli schieramenti».
Scienza e teologia possono incontrarsi?
«Vedremo. Io dico che scienza e teologia
non hanno statuti conflittuali, ma sono incomparabili,
procedono su due binari, magari
paralleli, perché usano metodi differenti.
Qualcuno sostiene che i binari non si incontreranno
mai, qualche altro che è inutile procedere.
Io dico che gli scambi sono possibili».
Anche se la Chiesa propone valori non negoziabili
e viene accusata di imporre visioni
etiche blindate?
«La fede deve sempre saper dare ragione
di sé stessa, deve depurarsi di ogni rigidità,
deve conoscere in modo puntuale e preciso il
livello scientifico del dibattito, soprattutto su
questioni delicate come quelle bioetiche.
Non si può più far finta di sapere qualcosa e
poi imporre un proprio sistema etico punto e
basta. La stessa cosa deve fare la scienza, accettando
l’orizzonte della trascendenza».
E chi non crede?
«Va rispettato. Ma il vero ateo non è mai
sprezzante, sarcastico o dissacratorio. Così come
il vero credente evita la scorciatoia del devozionalismo».
Non c’è il rischio che nel cortile si rinunci
alla propria identità per quieto vivere?
«L’obiezione è diffusa e seria. Per un autentico
dialogo vanno esclusi gli estremismi e
gli integralismi, ma va evitato anche il sincretismo
ideologico che porta alla definizione
di un minimo comune denominatore, che
non serve a nessuno. Si possono scoprire consonanze
anche in contributi differenti che rimarranno
sempre tali. La cosa importante è
suscitare la ricerca attorno, in definitiva, alla
questione di Dio, che potrà anche rimanere
sconosciuto e ignoto alla fine per molti, ma
sul quale nessuno è autorizzato a negare che
ci si debbano porre domande».