Si fa presto a dire famiglia. Quella di Salvatore Silvestro è un «eden sgarrupato» che davanti alla sciagura, il “focu”, fugge via da Nacamarina e si rifugia in Altitalia. È Laura, la moglie, a decidere perché, spiega Rosella Postorino, autrice de L’estate che perdemmo Dio, «non vuole restare vedova e lasciare orfane le figlie». Nessuna particolare coscienza civile, quella di Laura, ma puro «istinto di sopravvivenza».
Il romanzo che Famiglia Cristiana propone la prossima settimana ha a che fare con una materia incandescente perché ricorda che in una terra di mafia ci può essere “famiglia” anche laddove, in nome dell’unità e del bene degli affiliati alla famiglia stessa, si finisce per non rispettare la legge e la vita umana.
- È un romanzo sulla mafia il suo?
«È un romanzo sul confine sottile tra colpa e innocenza. I miei personaggi si trovano sempre su quel crinale, sono vittime e carnefici allo stesso tempo. Questo crinale è ciò che mi interessa. Insieme alle gabbie da cui tutti cerchiamo di uscire».
- Di fronte alla sciagura della criminalità, sembra dire il suo libro, l’unica soluzione è fuggire per non contaminarsi.
«In realtà non avanzo nessuna soluzione. Lo scrittore si fa delle domande, non deve fornire risposte. Racconto la storia di una singola famiglia, nella sua unicità. L’estate che perdemmo Dio ha al suo centro la mafia, ma in un modo diverso da come viene di solito trattata nella narrativa, perché la mostra dall’interno delle relazioni personali. M’interessava raccontare la contiguità con il sistema mafioso. I miei protagonisti non appartengono a un clan, ma “per nascita” gli sono vicini. Se vivi in un territorio impregnato di cultura mafiosa, ostaggio di quel sistema, è difficile non essere collusi. Per ignoranza, per mancanza di consapevolezza, per destino».
- Alla fine Salvatore e Laura fuggono via.
«Sì, perché è l’unico modo per sfuggire alla morte probabile, anche se la fuga comporta per loro una perdita. Ogni presa di coscienza, in fondo, implica una perdita. Ci sono luoghi che possono essere condanne. Finché per un ragazzino napoletano sarà più facile fare da palo nelle piazze di spaccio della camorra anziché studiare o trovare un lavoro, finché lo Stato sembra lontano, vince l’antistato. È paradossale dirlo, ma la mafia rappresenta una specie di welfare alternativo. Mi chiedo: per vivere in un territorio di mafia, devi essere per forza un martire o un eroe? Le persone purtroppo non sono tutte Peppino Impastato o Roberto Saviano, ma hanno diritto di esistere anche se non lo sono, questo è il punto».
- Ma nelle terre di mafia la famiglia è sempre un valore positivo o non rischia a volte di essere un microcosmo che rafforza la mentalità mafiosa?
«Questa è una domanda cruciale. La mafia, il sistema culturale che la alimenta, corrompe tutto quello che tocca, storpiando il significato di parole come famiglia, rispetto, fedeltà. Anche il senso della religione viene pervertito. La ‘ndrangheta è l’organizzazione criminale più forte e potente del mondo, diffusa su scala globale, anche perché gioca sul sistema familistico. I componenti delle ‘ndrine sono in genere consanguinei, quindi è molto più difficile per un familiare dire no, sottrarsi al ricatto della famiglia. La famiglia è un valore, certo, come tutte le relazioni che hanno a che fare con la cura dell’altro. Ma nel momento in cui degenera in un’alleanza di potere e sopruso diventa una distorsione. È questa l’operazione che la mafia fa, renderti colluso a tua insaputa».
- Sempre all’insaputa?
«No, non sempre. I personaggi dei miei romanzi però sono in genere individui semplici, non hanno strumenti culturali raffinati. I Silvestro si trovano per contiguità parentale a essere vicini a un clan e ne hanno anche goduto i vantaggi economici, ma sino a un certo punto. Finché questa condizione ha significato privilegi, non si sono posti il problema. Dopo, ne hanno vissuto l’orrore sulla propria pelle. La mafia si sovrappone all’idea di Dio, perché decide persino se devi vivere o morire, non solo se puoi lavorare o meno, decide della tua stessa esistenza».
- Oggi al Sud c’è una consapevolezza nuova nella lotta alla mafia?
«Quando nel programma Il testimone di Pif vedo i commercianti siciliani attaccare sulla porta del proprio locale l’adesivo “Addio pizzo”, sono stupita dal loro coraggio. L’unione delle forze magari attenua la paura, ma il punto è che le persone non possono essere sole a combattere la mafia. La mafia deve essere combattuta a livello politico e anche economico. La storia che racconto è ambientata negli anni Ottanta, ai tempi della seconda guerra di ‘ndrangheta: all’epoca, forse, non era così diffusa una coscienza antimafia. Nel tempo è stato fatto molto lavoro, grazie a diverse associazioni, come “Libera” o “DaSud”».
- Qual è il segreto del riscatto per i protagonisti del suo romanzo?
«Sta nella possibilità di dire no a qualcosa cui pensavi di non poterti opporre. È Laura che dice no per prima, ma non perché sia più progressista o antimafiosa, è solo per salvare la sua famiglia, semplicemente per amore. L’amore è sovversivo in questo romanzo. Il suo no è istintivo, primordiale, ma innesca un percorso in cui tutti sono costretti a guardare in faccia la colpa. Un vero riscatto non c’è perché i personaggi saranno comunque colpevoli. Caterina, la figlia maggiore, sente su di sé il carico dell’espiazione. Ma è anche convinta che il compito degli esseri umani sia quello di cercare la felicità. Il fatalismo meridionale ha un’idea punitiva della vita, è come se credesse solo a un Dio dell’Antico Testamento: cercando la felicità si osa troppo, si può meritare il castigo. Invece, sapere di avere dei diritti, riconoscerli, difendere la propria libertà è un gesto ribelle, un gesto antimafioso».