Sono giovani, tatuati e violenti: per loro, i membri delle
pandillas, gang che oggi rappresentano una vera emergenza sociale in buona
parte dell'America Latina, la vita ha un destino già scritto. E, proprio perché
non hanno niente da perdere, trasformano la rabbia che portano dentro per il
futuro a cui non hanno libero accesso in omicidi, prevaricazioni, vandalismi
gratuiti nei confronti dei rivali con cui si contendono il controllo sul
territorio. I più fortunati finiscono in carcere, gli altri al cimitero. Gli
scontri tra band in Paesi come Salvador, Guatemala e Honduras sono diventati
una condizione naturale nei quartieri più degradati delle grandi città, là dove
alcuni Governi hanno preferito chiudere gli occhi di fronte al fenomeno e oggi
si ritrovano intere comunità soggiogate dalla paura che queste bombe a
orologeria esplodano. Le pandillas sono questo e molto altro ancora: sulla loro
nascita e sulla loro trasformazione si interrogano sociologi, psicologi,
educatori e politici (poco). Intanto però la loro forza è così dirompente che
anche Paesi molto lontani come l'Italia cominciano a vederne gli effetti con la
riproposizione delle medesime dinamiche sudamericane: l'appartenenza a una
banda travalica ogni confine. Lasciarsi tutto alle spalle, magari per
ricongiungersi ai propri genitori emigrati anni prima, è tutt'altro che
semplice, anche per chi a un certo punto ne farebbe volentieri a meno: i
tatuaggi in posti visibili come il collo e la testa rigorosamente rasata servono
proprio a "marchiare" l'individuo in modo indelebile. Da una parte
rappresentano l'orgoglio di essere "uomini veri" che non hanno paura
di niente e di nessuno, dall'altra sono, con un effetto boomerang, una sorta di
bersaglio permanente per i rivali. I tatuaggi indicano, a prescindere, chi deve pagare: a scatenare le risse e gli accoltellamenti sono
sufficienti uno sguardo di troppo, un gesto esagerato, un passo falso sul
marciapiede sbagliato.
Certo, chi si è accorto che bisognava intervenire c'è. E come spesso succede in questi casi, la sensibilità di onlus e ong è arrivata per le strade, in mezzo ai giovani, nel cuore della "battaglia" prima delle istituzioni, peraltro ben felici di delegare il tamponamento di situazioni tanto critiche. Tra queste c'è Soleterre, organizzazione umanitaria nata con la mission di difendere e restituire ai legittimi "proprietari" i diritti dei soggetti più vulnerabili con interventi mirati in campo sanitario, psico-sociale, educativo e del lavoro. Tutto questo attraverso il coinvolgimento diretto dei primi beneficiari dei progetti così da creare circuiti virtuosi che sono la garanzia più solida della buona riuscita e della lunga durata di un'azione umanitaria. Nel caso delle pandillas, per esempio, facendo leva sul significato e, ancor di più, sull'applicazione della giustizia riparativa. Un tema tanto caro anche al cardinale Carlo Maria Martini ("Sulla giustizia", Mondadori) che giustappunto si domandava: "Le leggi, le istituzioni, i cittadini, i cristiani credono davvero che nell’uomo detenuto per un reato c’è una persona da rispettare, salvare, promuovere, educare?".
La giustizia riparativa è definita come una possibile risposta al reato che coinvolge il reo e - direttamente o indirettamente - la comunità e/o la vittima, nella ricerca di possibili soluzioni agli effetti dell’illecito e nell’impegno fattivo per la riparazione delle sue conseguenze. Il fenomeno criminoso viene letto, in tale ottica, non solo come trasgressione di una norma e lesione (o messa in pericolo) di un bene giuridico, ma come evento che provoca la rottura di aspettative e legami sociali simbolicamente condivisi che richiede l’adoperarsi per la ricomposizione del conflitto e il rafforzamento del senso di sicurezza collettivo. La rilevanza culturale, giuridica, operativa del tema è di tutta evidenza alla luce dei documenti internazionali ed in particolare della Raccomandazione (99)19 del Consiglio d’Europa, della Dichiarazione di Vienna del 2000 (X Congresso delle Nazioni Unite sulla Prevenzione del Crimine e il trattamento dei detenuti - Vienna 10 - 17 aprile 2000) e della Risoluzione sui principi base sull’uso dei programmi di giustizia riparativa in ambito penale dell’Economic and Social Council 2000/14 del 27/07/2000.
Antonio Lopez Gutierrez è nato a San Salvador, capitale del
piccolo stato di El Salvador, in America Centrale. Ora ha 25 anni e studia
psicologia all’Università e da quando ne ha 11 vive con sua madre e la
sorella maggiore nella colonia Santa Marta 2, quartiere di San Jacinto.
Antonio ha vissuto tutta la sua infanzia insieme alla bisnonna e ai cugini,
visto che la mamma lavorava quasi tutto il giorno fuori casa. La colonia in cui è cresciuto è considerata ad altissimo livello di pericolo per gli alti tassi di
violenza e la massiccia presenza di pandillas: attualmente, la situazione è
diventata talmente critica che le istituzioni della città hanno decretato il
coprifuoco nelle ore serali.
Vivendo nella comunità, a poco a poco, Antonio si è abituato
all’idea che i giovani si guadagnassero da vivere rubando e fossero
protagonisti di ogni genere di violenze. Nella classe che frequentava, la
maggioranza dei compagni e delle compagne facevano parte di una pandilla e, fin
da giovanissimi, ne erano membri attivi. Durante il percorso di studi, non
passava giorno in cui qualcuno di loro venisse arrestato o ucciso. Poi,
all’ultimo anno di studi, José, uno dei compagni di Antonio, divenuto leader
della pandilla della colonia in cui entrambi vivevano, si è messo la mano sul
cuore e, mosso da un moto di pietà, ha letteralmente convinto l'amico che
entrando nella banda avrebbe incontrato niente altro che problemi e sofferenze.
In questo mare di arresti e omicidi, Antonio ha preso coscienza dei rischi del
fenomeno decidendo, un passo alla volta, di impegnarsi come volontario in
organizzazioni comunitarie giovanili. Con il progetto Conjunto, promosso dalla
Municipalità di San Salvador, ed il progetto di Giustizia Riparativa realizzato
da Soleterre, Antonio ha potuto impegnarsi in modo sistematico sul tema della
prevenzione della violenza. Ora, Antonio fa parte di una rete regionale in
Centroamerica per la prevenzione della violenza sociale. La sua prospettiva
futura è laurearsi in università e poter lavorare a fianco della sua comunità,
mettendo a disposizione le competenze acquisite per il bene dei giovani del suo
paese. Abbiamo avuto la fortuna di fargli qualche domanda: ecco cosa ci ha detto.
Com’è la vita di un giovane oggi in El Salvador?
«Costantemente a
rischio. Le pandillas, infatti, non sono solo un problema per i membri della
pandilla rivale ma attaccano, estorsionano e intimidano tutti i giovani, mentre
vanno a scuola o al lavoro. Questo per quanto riguarda l’ambito della
delinquenza. Per quel che riguarda il campo sociale, la situazione giorno
dopo giorno è entrata a far parte della routine: per molti motivi noi giovani
non possiamo andare dove vogliamo, dobbiamo tenere conto di certi limiti se non
vogliamo mettere in pericolo la nostra sicurezza. A livello lavorativo ci sono
i maggiori problemi perché in molti casi i giovani finiscono le scuole e non
hanno possibilità di accedere a un lavoro perché non hanno l’esperienza
necessaria».
A differenza di molti altri tu hai deciso di non entrare in
una pandilla, perché?
«Prima di tutto perché da quando mio padre è morto, quando
avevo 6 anni, vivo da solo con mia madre e lei mi ha saputo crescere e
consigliare anche su questo tema. Nonostante oggi viva nella zona più violenta
e pericolosa del mio Comune in San Salvador, ho avuto alcuni amici che mi hanno
consigliato di non entrare in nessun affare di pandilleros. Allo stesso tempo
non mi ha mai attirato l’idea di entrare a far parte della pandilla, ho visto
miei vicini morire o andare in prigione e ho scelto di non farne parte».
Com’è stata la tua vita di adolescente, rispetto a quella
dei tuoi coetanei che facevano parte di una pandilla?
«È stata diversa, nonostante il fatto, per esempio, giocassimo a calcio insieme. Poi però a un certo punto loro dovevano andarsene per
vigilare la zona dai rivali. Io li guardavo e pensavo che una vita così non
faceva per me. Oggi alcuni di loro sono ricercati dalla polizia, altri in
carcere».
Come spiegheresti ad un giovane la giustizia ripartiva?
Pensi che sia una buona strada da percorrere per risolvere i problemi di
violenza giovanile nel tuo Paese? Perché?
«In primo luogo bisognerebbe arrivare ai gruppi Giovanili di
ogni comunità per fargli conoscere il tema. Da lì si potrebbe coinvolgere ogni
giovane e cominciare a trasmettere il concetto di giustizia riparativa ad altri
giovani in modo generale e via via facendogli conoscere i benefici. La
giustizia riparativa non è solo una missione ma porta reali benefici tanto ai
giovani come agli adulti. Per questo è importante che lo conoscano non solo gli
operatori di giustizia, ma tutte le persone della comunità».
Puoi raccontarci della tua esperienza nel progetto
Desarrollo de Políticas e iniciativas a nivel regional en favor de jóvenes en
riesgo o en conflicto con la ley? Com’è stato il rapporto con i giudici? Cosa
ti ha insegnato e cosa voi avete insegnato loro?
«Il progetto è stato qualcosa di completamente nuovo per me
ed avevo molte aspettative di apprendimento, anche senza pensare al viaggio di
studio o ai corsi di specializzazione. A livello personale, grazie al progetto, ho potuto vedere in modo differente e migliore quale sia la situazione dei
diversi paesi della regione e conoscere allo stesso tempo la situazione della
gioventù del mio paese, che ha come unica opportunità quella tradizionale del
carcere.
La relazione con gli operatori di giustizia è stata
eccellente: abbiamo fatto alcune presentazioni nell’ambito del progetto e
questo ha destato la loro attenzione anche per il fatto che eravamo giovani.
Abbiamo avuto durante tutti gli incontri una partecipazione e una comunicazione
eccellente e abbiamo imparato da loro molto sul tema giudiziario. A loro volta,
loro hanno imparato da noi alcune cose dell’ambito giovanile e comunitario.
Alla fine loro stessi ci hanno indicato molti casi in cui si potrebbe
utilizzare la mediazione con i giovani dei centri di detenzione minorile».
Per combattere la violenza quanto possono fare i singoli e
quanto il gruppo (rete/comunità)? Quanto e perché è importante mettersi in rete
per cambiare la situazione?
«In primo luogo, per lottare contro la violenza non è
necessario essere in tanti. Per poter cambiare il presente di violenza si
potrebbe essere in 10 persone e se si volesse, si potrebbe cambiare. Nel mio
paese è questo quello che manca, avere dei sogni. E una volta che si hanno dei
sogni, condividerli.
E’ importante appartenere a una rete perché quando
si ha di fronte un rappresentante istituzionale, come un Sindaco, e si parla in
qualità di rappresentante di una Rete si ha un voce più pesante. Bisogna pensare all’America Latina
come a un territorio unito, tutto sta nel proporre e pensare in grande».