Ho visitato alcuni giorni fa la casa-nascondiglio di Anne Frank ad Amsterdam. L’edificio guarda sul canale, in Prinsengracht 263, e fu salvato dalla demolizione nel 1957 grazie all’iniziativa di alcuni abitanti di Amsterdam. Divenne museo nel 1960 per opera del padre di Anne, Otto Frank, unico sopravvissuto della famiglia al lager e artefice della pubblicazione del diario della giovane, morta nel 1945 nel campo di sterminio di Bergen-Belsen a soli 15 anni.
Mi sono messo in coda. Ad attendere con me davanti all’ingresso tantissimi visitatori assiepati in paziente attesa del proprio turno di visita. Giovani e meno giovani, olandesi e tanti turisti stranieri, tedeschi, inglesi, americani, cinesi, italiani.
All’interno dell’alloggio segreto il serpente umano si smembra e nel silenzio, come si fosse entrati in chiesa, inizia la visita all’appartamento. Al piano superiore, oltrepassata la libreria girevole che celava l’accesso al nascondiglio dei Frank, nonostante l’angustia dell’alloggio e i tanti, forse troppi visitatori, la macchina del tempo mi ferma al 1942: sono un clandestino ebreo e i miei occhi “vedono” gli altri otto clandestini muoversi accanto a me.
Ogni anno, dal 2009, il museo aumenta il numero d’ingressi. Nel 2016 i visitatori sono stati oltre un milione. Per adeguarsi alle esigenze del crescente afflusso di persone i volumi del museo, nel tempo, sono stati per due volte aumentati.
Da soli raccontano di più sull’orrore dell’Olocausto queste povere pareti e la lettura del diario di Anne che tanti corsi di storia moderna. Ecco perché i gruppi neonazisti hanno provato più volte a negare l’autenticità del nascondiglio e degli scritti della Frank.
Data infausta sarà il giorno in cui la coda in Prinsengracht 263 scomparirà: la violenza di una nuova dittatura potrebbe aver già fatto irruzione nelle nostre vite, come la fecero in questa casa gli agenti nazisti il 4 agosto del 1944. “Quelli che non ricordano il passato sono condannati a ripeterlo”, sta inciso nel lager di Dachau.