GIANNI R. - Come si concilia la gestione di ingenti somme di denaro da parte della Chiesa con la povertà evangelica e con il sogno di una Chiesa libera e povera?
La Chiesa non disprezza il denaro o i beni materiali, piuttosto è chiamata a purificarsi per considerarli sempre più dei mezzi e non dei fini. Un anziano confratello amava ripetere che il dio denaro è l’unico dio che non conosce atei e lo diceva, nella sua predicazione, con grande amarezza. Allora si tratta di non perdere mai di vista il fine al quale i beni terreni vanno destinati. Per quanto riguarda la Chiesa, si tratta di una duplice finalità. Innanzitutto quella dell’evangelizzazione: il Vangelo per essere annunciato ha bisogno di persone e strutture che devono essere sostenute anche economicamente. Poi vi è il fine della carità, soprattutto verso i più indigenti e bisognosi. Anche le opere di carità hanno bisogno di risorse e di strumenti adeguati per potersi realizzare. Gesù stesso non ha disdegnato il sostegno economico, in particolare da parte delle donne che lo seguivano (Lc 8, 1-3) e, nella parabola dei talenti, utilizza la metafora del denaro fatto fruttare per disegnare il compito dei discepoli in vista del Regno di Dio (Mt 25, 14-30). Nella misura in cui la comunità credente, a tutti i livelli, riuscisse a ispirarsi a questa prospettiva evangelica e a finalizzare in maniera autentica i propri averi, potrebbe davvero diventare un segno per il mondo e in particolare per l’economia e la finanza, ricordando a tutti che il fine del denaro è la persona.