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lunedì 21 aprile 2025
 
reportage
 

Viaggio a SanPa, dove s’aggiustano le vite bruciate dalla droga

15/07/2023  Siamo stati a San Patrignano, la comunità di recupero più grande d'Europa, per conoscere le storie di chi sta lottando per uscire dalla tossicodipendenza. La giornata è scandita da lavoro, svago e dai pasti consumati insieme. Niente Tv, computer e cellulare. Le lettere, scritte a mano e spedite, sono l'unico contatto con l'esterno. Il responsabile terapeutico Antonio Boschini: «Negli anni Ottanta erano i genitori a venire a trovare i figli in percorso. Oggi in comunità ci sono molti genitori che hanno figli anche piccoli»

Rotolato ricco e fortunato com’era dall’agiatezza alla fame, Gio, 38 anni, di San Casciano Val di Pesa, Firenze, per la cocaina e il crack (la coca fumata, ndr) ha perso l’eredità, l’attività di famiglia, settecentomila euro in due anni, gli affetti e anche la dignità. «Quando ho capito di aver toccato il fondo, il 18 maggio 2021 ho bussato alla porta di San Patrignano. È stata la mia fortuna», dice mentre su un foglio protocollo, di quelli che si usano al liceo per fare il compito di italiano, sta scrivendo una lettera al babbo per fargli sapere come sta. «All’inizio scrivevo papiri lunghissimi, anche sei pagine. Ora sono più sintetico. Anche mio fratello fa uso di coca ma di lui non ho più notizie. Si era quasi convinto a entrare a SanPa con me ma alla fine ha cambiato idea perché non era convinto di volersi disintossicare».

Gio ha pensato anche al suicidio: «Non l’ho fatto solo perché avevo paura», dice, «quando ti fai di crack non esci più di casa, è come vivere sequestrati. Io non andavo neanche a fare la spesa. Ho iniziato con la cannabis a 15 anni, poi la coca a 20 e il crack a 28. Studiavo all’Istituto alberghiero ma non sono riuscito a diplomarmi. Sono andato a lavorare in un’azienda di moda ma è durato poco. Dopo la morte di mia madre, ho ereditato una fortuna e ho messo su un agriturismo nella villa in Chianti e un B&B in centro a Firenze. Ho dovuto vendere tutto perché i soldi per la droga non mi bastavano mai. Ero ricco ma mi sentivo insicuro anche nel rapporto con le donne. La sostanza ti fa sentire importante e accettato dagli altri, ti toglie la timidezza. E brucia tutto il resto».

Andrea, 21 anni, di Empoli, addetta al controllo qualità nel laboratorio tessile dove lavorano venti ragazze, ha un sorriso radioso: «Eh sì, me lo dicono tutti. Anche quando mi facevo di eroina apparivo così e nessuno riusciva a capire l’inferno che avevo dentro», racconta, «dopo la fine della storia con il mio ragazzo mi è crollato il mondo addosso. Era l’unica figura maschile di riferimento che avevo perché papà, tossicodipendente, non c’è mai stato nella mia vita. Mi sono isolata e cercavo conforto nella droga. Sono entrata a SanPa due anni fa e adesso ho riacquistato fiducia in me stessa e negli altri. Il mio sorriso ora è vero, non è la maschera di un inganno».

Matteo, 30 anni di Cesena, non si distrae un attimo dalla macchina che sta imbottigliando a gran velocità l’Aulente, il vino bianco, annata 2022, ottenuto dai vigneti che circondano i colli attorno a San Patrignano, la comunità terapeutica più grande d’Europa, che si trova a Coriano, alle porte di Rimini, nata quarantacinque anni fa dall’intuizione di Vincenzo Muccioli e tornata alla ribalta per la discussa (e parziale) fiction di Netflix uscita tre anni fa.

Oggi è una cittadella che fattura quasi 30 milioni di euro. I ricavi servono a finanziare per il 60 per cento il percorso di recupero degli ospiti. Il resto arriva da donatori privati, soprattutto aziende.

Un gruppo di ragazzi nella sala da pranzo della Comunità che si trova a Coriano, alle porte di Rimini, ed è stata fondata nel 1975 da Vincenzo Muccioli (1934-95)

Matteo lavorava come cameriere nel ristorante di famiglia, ogni tanto andava in cassa. E allungava le mani: 300 euro al giorno per le dosi. «I miei non se ne accorgevano, io non facevo gli scontrini. Dieci anni di crack, una sostanza che t’incatena, che mi ha indotto anche a bere e a giocare alle slot machine. C’erano giorni che bruciavo 500 euro davanti a quegli aggeggi. Non giocavo per vincere ma per provare il brivido della sfida».

Gabriele, 30 anni, di Bibbona, Livorno, è arrivato un anno e tre mesi fa per dipendenza da cocaina: «L’ho provata per gioco un Natale di alcuni anni fa con alcuni amici. Mai fumato e bevuto prima. Qui ho scoperto di essere una persona fragile e insicura».

Il crack s’è preso anche la vita di Simone, 24 anni di Roma, con i genitori entrambi ludopatici.

La prima cosa che colpisce dei ragazzi di San Patrignano è che tutti, quando raccontano la propria storia, esordiscono dicendo la data esatta del loro ingresso. Come se fosse quella della seconda nascita, l’inizio del riscatto, la possibilità di voltare pagina.

«Prima il futuro per me non esisteva, adesso lo vedo», dice Elena, 23 anni, addetta al canile, messa kappaò per eroina e psicofarmaci, passata per una comunità di Reggio Emilia dove non riusciva a fare passi avanti e poi finita a un passo dalla strada perché a casa dai suoi non voleva tornarci: «Ho sentito SanPa la mia casa quando ho iniziato a fare amicizia con due ragazze. Qui non ci sono rapporti di convenienza ma di gratuità. Quando esco voglio iscrivermi a Scienze dell’educazione e il weekend lavorare come cameriera a Chieti».

Un altro dettaglio che colpisce di SanPa sono gli oggetti che rimandano a un tempo che noi, fuori, non riusciamo neanche più a immaginare. Niente cellulare, Tv in camera, computer. Le lettere, scritte a mano, messe in busta e spedite, sono l'unico contatto con il mondo esterno dove ad aspettare (e sperare) sono rimasti, non sempre, gli affetti, qualche amico, una fidanzata di cui non si sa più nulla «e che stupido sono stato a farmela scappare per quella maledetta coca», mormora qualcuno.

Per chi vuole sapere le notizie c'è il Tg5 delle 13, registrato e proiettato alle 20 come un film e “tagliato” dei servizi che parlano di violenza e abusi. Chi vuole approfondirle sfoglia i quotidiani e i settimanali cartacei che la sera, dopo cena, vanno a ruba, nel salone dove si può ascoltare musica, chiacchierare o giocare a carte.

Il gruppo regia sceglie le pellicole da proiettare in teatro e con l'arrivo della primavera «abbiamo deciso di mettere qualche commedia per ridere un po'», dice Stefano. I prossimi film in programma sono Johnny Stecchino di Roberto Benigni e Tre uomini e una gamba di Aldo, Giovanni e Giacomo.

Si dorme e si mangia rigorosamente insieme ai colleghi di lavoro (donne con donne e uomini con uomini) nella sala da pranzo forse più grande d’Italia con vista sui colli riminesi e dove nei weekend e durante le feste ci si riunisce tutti insieme.

A chiudere la giornata c’è il "cerchio", altro rito tipicamente serale, con cui ogni gruppo decide cosa fare dopo aver cenato: cinema, musica o branda, che nel gergo di qua significa andare a letto.

Alcuni ospiti nel laboratorio di decorazione e bricolage

Oggi San Patrignano ospita circa ottocento persone. L’età media è di 35 anni. Più bassa per le donne, più alta per gli uomini con casi anche di sessantenni.

Il percorso per i dipendenti da sostanze dura tre anni, quello per i ludopatici, come Luca, la metà. La terapia ambientale passa dal lavoro, fondamentale per disintossicarsi. Ci sono il forno, gli allevamenti, la cantina che produce e imbottiglia fino a cinquecentomila bottiglie di vino l’anno esportato anche all’estero, il caseificio, il laboratorio di tessitura artigianale, la falegnameria, il canile che ospita randagi abbandonati, il centro medico con cinquanta posti letto dove le persone in percorso possono seguire il corso di operatore socio-sanitario e svolgere tirocini formativi.

L’obiettivo di chi è a SanPa non è solo imparare a vivere senza la loro dipendenza ma anche riuscire a convivere con gli altri, avere delle relazioni, imparare un mestiere, essere produttivi. Prepararsi per il futuro.

Antonio Boschini, medico infettivologo, è il il responsabile terapeutico ma anche la memoria storica della Comunità «Sono entrato quarantatré anni fa esatti», dice. Il suo è un osservatorio prezioso per capire il panorama delle dipendenze della società italiana, sempre più segnato dalla cocaina ma soprattutto dal crack, che della coca è il parente più miserabile e pericoloso. «Oggi ci sono tre tipologie», dice, «la prima riguarda persone dai 30 ai 50 anni che entrano per cocaina e alcol, due sostanze che vanno di pari passo in un circolo vizioso. Appartengono a un ceto alto e benestante, hanno una famiglia, un lavoro e nessuna storia di dipendenza alle spalle e questo mi colpisce molto. La seconda è quella della dipendenza da crack che si consuma in un contesto sociale e culturale molto diverso rispetto alla cocaina. Il crack si fuma da soli, nella propria stanza e innesca una dipendenza violentissima. Chi ne fa uso è di un ceto più basso, fumava cannabis, tende a rovinarsi economicamente in breve tempo e a commettere reati per procurarsi le dosi, dai furti alla prostituzione, soprattutto le donne. Ricorda molto l’eroina degli anni Settanta. La terza tipologia è quella che conosciamo dagli anni Ottanta con un’escalation di sostanze: cannabis, droghe sintetiche, eroina che può essere fumata, inalata o iniettata con la siringa con il rischio di contrarre varie malattie tra cui epatite e HIV».

Due ragazze lavorano al telaio nel laboratorio tessile

A San Patrignano ci sono anche due centri per minori, uno maschile e uno femminile, per un totale di trenta ospiti.

Nathalie, di Bressanone, 19 anni appena compiuti, aspetta di finire la Maturità per uscire: «Sono entrata nel dicembre 2020, in piena pandemia. Ho iniziato a 13 anni con coca ed ecstasy dopo un’incidente in montagna. Odiavo mia sorella, più piccola e con la sindrome di Down, perché i miei genitori davano più attenzione a lei che non a me. Ora mi sono riconciliata con lei e sono pronta a tornare a casa».

Per i minori, la tossicodipendenza tra uomini e donne cambia: «I ragazzi arrivano qui per problemi di tipo comportamentale ai quali spesso è associato il consumo di alcol e cannabis che poi, nel giro di due anni, sfocia nella cocaina. L’età media delle prime esperienze è di 15 anni. Le ragazze, invece, sono più precoci, iniziano anche a 12, e utilizzano anche l’eroina con la siringa».

«Le famiglie da cui provengono i ragazzi sono molto più deteriorate di quanto non fosse negli anni Ottanta», spiega Boschini, «all’epoca la droga era conseguenza della contestazione dei Settanta e non era sintomo di emarginazione sociale ma di protagonismo “civile”. Oggi è il contrario. Inoltre, in quegli anni, tendenzialmente, erano i genitori a venire a trovare i figli in percorso. Oggi in comunità ci sono molti genitori che hanno figli anche piccoli. Rispetto al passato, la droga oggi è una valvola di sfogo, se così posso dire, di situazioni familiari traumatiche. Ci sono ragazzi che vivono male le separazioni dei genitori. Oppure molti sono adottati che prima di venire in Italia hanno vissuto quasi tutta l’infanzia in orfanotrofio, soprattutto nell’Europa dell’Est, con esperienze terribili e una volta trovata una famiglia adottiva si mettono alla ricerca dei genitori biologici, si chiedono perché sono stati abbandonati, cercano di ricostruire la storia della propria vita e non sempre trovano le risposte che cercano».

Per Stefano è l’ultima settimana di percorso, poi torna a casa dalla famiglia. «Finalmente esci, torni guarito», gli dice Gio, abbozzando un sorriso amaro. Stefano gli risponde che non è così, che la droga eserciterà sempre il suo potere seduttivo e che se c’è una cosa che s’impara a SanPa è che la "guarigione" non esiste. Esistono la concentrazione e la forza di volontà come strada per una salvezza sempre fragile, precaria, instabile. «Ma prima di entrare qui», dice Stefano, «non c’era neanche quella nella mia vita».

Gio, 38 anni, mentre scrive una lettera al padre

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