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venerdì 21 marzo 2025
 
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"Nella lista di Schindler c'era un solo ebreo italiano, ed era mio padre"

24/01/2025  Intervista al figlio di Schulim Vogelman, unico italiano salvato da Oskar Schindler. La prima moglie, Anna Disegni, e la loro bambina Sissel morirono appena arrivati ad Auschwitz. Il figlio Daniel Vogelman ha poi fondato la casa editrice Giuntina, specializzata in testi sull'ebraismo e la shoah

Schulim Vogelman con la flglia Sissel, morta ad Auschwitz
Schulim Vogelman con la flglia Sissel, morta ad Auschwitz

Nella famosa lista  che permise all'industriale nazista Oskar Schindler di salvare la vita a oltre mille ebrei, c'era i anche un italiano, Schulim Vogelmann, che a dispetto del nome viveva e lavorava a Firenze e che, mentre con la famiglia tentava di raggiungere il confine con la Svizzera, fu catturato e mandato ad Auschwitz. Una storia incredibile, quella di Schulim Vogelmann, che ci siamo fatti raccontare dal figlio Daniel, fondatore della casa editrice Giuntina, specializzata in testi su storia, narrativa e tradizione ebraica.

«Mio padre non mi ha mai parlato molto del suo passato. Sapevo che era stato ad Auschwitz, ma ignoravo il ruolo che aveva avuto Oskar Schindler nella sua salvezza. Lo scoprii molti anni dopo la sua morte (avvenuta nel 1974 quando avevo 26 anni), dopo l’uscita del film Schindler’s list. Un amico mi chiamò per dirmi che nell’elenco degli ebrei della lista, che compare alla fine del film, c’era anche il nome di mio padre. Scrissi allo Yad Vashem, l’Ente nazionale per la memoria della Shoah di Gerusalemme, e mi confermarono che effettivamente era uno degli ebrei salvato da Oskar Schindler».

La storia di Shulim Vogelmann parte da lontano: il 28 aprile 1903 Schulim nacque su un treno che portava i suoi genitori, Nahum Vogelmann e Sissel Pfeffer e il figlio maggiore Mordechai, da Tarnopol a Przemyslany, entrambe città della Galizia orientale, una regione della Polonia che allora faceva parte dell’Impero austro-ungarico. A completare la famiglia arrivò poi la figlia Miriam. Il padre aveva una piccola banca, erano una famiglia benestante: i figli studiarono nella scuola religiosa ebraica e in estate andavano in vacanza a Grado, in Italia. Con lo scoppio della Prima guerra mondiale molti ebrei galiziani furono deportati in Siberia dai russi e la famiglia Vogelmann si rifugiò a Vienna, dove dovette adattarsi a un tenore di vita più modesto. Dopo la morte prematura della mamma, alla fine della guerra la famiglia si divise: il papà e Miriam tornarono in Polonia, Mordechai andò a Zurigo per studiare da rabbino, Schulim, che aveva solo 15 anni, si recò in Palestina. Ma lì era difficile trovare lavoro e dopo aver servito nell’Esercito inglese si ricongiunse al fratello, che nel frattempo era andato a Firenze a insegnare il Talmud in un collegio rabbinico. Fu assunto nella tipografia Giuntina di cui a 25 anni divenne il direttore. Nel 1933 si sposò con Anna Disegni, la figlia del rabbino di Torino, e nel 1935 nacque la loro bambina che fu chiamata Sissel come la nonna. Una famiglia felice che solo tre anni dopo cominciò a subire gli effetti delle leggi razziali. Anna perse il lavoro di insegnante, Sissel fu espulsa dalla scuola. La loro storia è simile a quella di tanti altri ebrei. Malgrado la persecuzione, i Vogelmann erano fiduciosi che non sarebbe successo nulla di grave e continuarono a rimanere a Firenze. Solo quando ci fu la retata nel ghetto di Roma decisero di fuggire in Svizzera con dei documenti falsi. Con il treno arrivarono a Sondrio, dove in un bar qualcuno si accorse che erano ebrei e li denunciò. Furono rimandati a Firenze nel campo di internamento di Villa La Selva e dopo poche settimane furono trasferiti nel carcere di San Vittore a Milano dove, il 30 gennaio 1944, partirono sui carri bestiame diretti ad Auschwitz dal famigerato binario 21 della Stazione Centrale. Sullo stesso treno c’erano anche Liliana Segre e il padre. Dopo sei giorni di viaggio infernali, all’arrivo Schulim vide per l’ultima volta la moglie e la figlia. Solo dopo seppe che dal treno erano state mandate direttamente nelle camere a gas. «Mio padre fu risparmiato perché pur essendo “vecchio” per i criteri di Auschwitz (aveva 41 anni) nei documenti risultava un tipografo. Fu così trasferito nel campo di Plaszow dove i nazisti avevano cominciato a stampare sterline false con l’obiettivo di far fallire la Banca d’Inghilterra. E da lì, grazie alla sua conoscenza del polacco, riuscì a farsi mandare nella fabbrica di Schindler, finendo così nella celebre lista che permise a Oskar di trasferire i “suoi” ebrei a Brünnlitz, in Cecoslovacchia. Il 9 maggio 1945 furono liberati». Rientrato dopo un lungo e faticoso viaggio a Firenze, Schulim, durante una serata per la festa di Chanukkà del 1946, conobbe una vedova, Albana Mondolfi. Con il figlio Guidobaldo di quattro anni si era salvata nascondendosi in un convenuto di suore. Si sposarono e nel 1948 nacque Daniel.

«Ho sempre considerato mio papà anziano. Lavorava molto e non aveva tanto tempo per giocare con me. Era diventato proprietario della tipografia e l’aveva fatta crescere. Amava la vita, era ottimista malgrado quello che aveva passato e quando gli chiedevano dove aveva studiato rispondeva: “Ad Auschwitz”. Qualche anno dopo la sua morte, nel 1980, decisi di trasformare la tipografia in una vera e propria casa editrice. Il primo libro che tradussi e pubblicai con il marchio Giuntina fu La notte di Elie Wiesel, futuro Nobel per la pace. Ora alla guida della casa editrice è subentrato mio figlio Shulim (sì, come mio padre ma senza la c). Le mie nipotine Alma e Shira mi chiedono sempre di Sissel, quella bambina bellissima strappata alla vita a soli 9 anni. La sorellina che non ho mai conosciuto e a cui ho dedicato alcune piccole poesie come questa: “Dovevi essere davvero cara a Dio/ se ti ha voluto così presto con sé./ Ma allora dimmi, tu che forse sai tutto:/ noi, non gli siamo cari?”».

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