I fratelli Dardenne e la religione. Ancora una volta i registi belgi scelgono di misurarsi con il contemporaneo, con la cronaca. Affrontano il tema spinoso della radicalizzazione, della fede che si trasforma in violenza. Il Libro Sacro in una mano e il coltello nell’altra. La preghiera e il sangue, il dialogo che non risolve, ma inasprisce. È la storia di un giovane musulmano, un ragazzino, che tramite il suo imam sceglie la via dell’intransigenza. La rete istiga i suoi istinti, il credo rischia di sfociare nella follia. Tenta di uccidere la sua insegnante, perché la ritiene “infedele”. Non pensa alle conseguenze delle sue azioni.
Le Jeune Ahmed è un passo “delicato” per i due autori, che denuncia, cerca di non prendere una posizione. Però l’odio è ovunque. Difficile sostenere Ahmed, scegliere di riabilitarlo. Finge di essere educato, rispettoso degli altri, per poi non fermarsi davanti a nulla, neanche alla bestialità. Le intenzioni di Jean-Pierre e Luc Dardenne sono encomiabili. Provano a dare un senso alla complessità del nostro tempo, si tengono a distanza con la macchina da presa, però maneggiano una materia incandescente. Non vanno a fondo del dilemma morale che si nasconde dietro alle scelte, utilizzano un approccio frontale, privo di empatia (quella che aveva reso grande Due giorni e una notte). Forse solo per un attimo sembra che Ahmed sia umano. In una sequenza è seduto, sta mangiando con una ragazza. Testa bassa, non parla. Lei gli chiede se preferisce guardarla con o senza occhiali, in modo chiaro o sfocato. Lui sorride, non sa rispondere. Con il suo passo indeciso, ma con la determinazione di togliere una vita.
Forse il mondo che descrivono i Dardenne è davvero inaccessibile. Però a mancare è il loro sguardo rigoroso sul sociale, su chi è ai margini e non riesce a farsi accettare. E il pentimento (figlio solo della finzione cinematografica) è affrettato, frutto del dolore, di uno stile al limite della retorica. Le Jeune Ahmed è come un funambolo, che potrebbe scivolare da un momento all’altro. E crolla proprio nell’ultima parte, quando il percorso formativo dovrebbe incontrare l’umanità. I Dardenne dipingono un ritratto glaciale, inchiodato sul viso quasi inespressivo di Ahmed. Lui potrebbe seguire le orme del protagonista de Il figlio, ma qui manca la dimensione famigliare, solo abbozzata con una madre in lacrime che sparisce quasi subito. La forza che Rosetta aveva nell’andare avanti, qui spinge verso l’oscurità. Poi ancora una caduta dall’alto, come nel bellissimo La Promesse. Ma da due maestri come i Dardenne ci si aspettava di più. Quasi nessun applauso alla fine della proiezione stampa nella sala Bazin al Festival di Cannes.