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martedì 08 ottobre 2024
 
 

Niccolò Campriani: Ho perso un'Olimpiade per paura. E poi ho vinto la successiva. Così.

11/01/2014  Niccolò Campriani è il campione olimpico di tiro a segno (carabina 3p): "A Pechino la paura mi ha paralizzato, ho cambiato vita perché non ricapitasse a Londra. E ora che ho vinto posso testimoniare che si può".

Niccolò con la fidanzata e collega Petra Zublasing (Foto: Giacomo Bianchi).
Niccolò con la fidanzata e collega Petra Zublasing (Foto: Giacomo Bianchi).

Se la paura di chi tira un rigore si materializza nell’immagine della porta che rimpicciolisce e nella sagoma del portiere che cresce a dismisura, la paura del tiratore è il bersaglio che va su e giù nella diottra della carabina. Fermati, fermati. Ma bisognerebbe fermare il cuore. O forse il cervello, più difficile ancora. Niccolò Campriani, 26 anni, campione olimpico di tiro a segno, freschissimo di Coppa del mondo nella specialità tre posizioni, conosce la sensazione: nel 2008 la paura l’ha tradito all’ultimo colpo della gara olimpica. Potenzialmente l’idea platonica del fallimento.

Campriani ci ha rimesso l’Olimpiade, ha visto il diavolo nel mirino e il fondo del suo barile. Poteva avvitarsi lì, invece ha dato una svolta alla vita: ha detto di sì a una borsa di studio in America, ha chiesto aiuto per affrontare il fantasma. Quattro anni dopo ai Giochi di Londra – da ingegnere laureato negli Usa e oggi anche specializzato a Sheffield ­­­- ha dimostrato vincendo che se la paura fa novanta una reazione intelligente può fare cento.

Che cos’è oggi la paura di Niccolò Campriani?
«Una cosa mai del tutto superata. Forse è difficile accettarlo, ma è anche un fatto positivo: il giorno che andrò in gara senza sentire il cuore che dà un battito in più, vorrà dire che è venuto il momento di fare altro. È una cosa che mi fa sentire vivo. L’Olimpiade vinta non mi ha cambiato, era il patto con me stesso: né la vittoria né la sconfitta mi avrebbero cambiato».

Dirselo è un conto, farlo un’altra cosa… O no?
«Fino a Pechino ho sbagliato: identiticavo me stesso con un ultimo colpo. Era l’errore che non volevo ripetere a Londra. Lì sono sceso al poligono dicendo a me stesso: ho lavorato al meglio delle mie possibilità, vediamo quanto valgo. Ma era in gioco una gara, non la mia autostima, non il mio valore di persona. Niccolò Campriani non è tutto in quel colpo. Non più. Questo è ciò che io posso controllare se poi quel giorno arriva il cinese di turno e fa il record del mondo non lo posso impedire, non è vero che se lo vuoi veramente vinci».

 Che cosa è cambiato tra Pechino e Londra?
«Il bello di questo sport è che non hai davvero avversario, sei solo con i tuoi bersagli. I colpi sono tutti uguali, l’ultimo dell’Olimpiade è identico a quello di un allenamento in Alto Adige, sei tu che dentro di te dai allo stesso gesto valori diversi. Ancora non riesco ad avere controllo su di me:  la gara dell’argento olimpico è stata bellissima, a quella dell’oro ero in testa e m’è presa paura. Se sei in testa così e perdi un’altra volta entri nei libri di storia. E lo sai. Avrei voluto essere così bravo da togliermi quella consapevolezza nefasta dalla testa, ma non ce l’ho fatta. Ho vinto. Ma ho avuto paura».

Non c’è nessuna realtà della vita che ti metta di fronte al qui e ora come una gara sportiva: per questo è così difficile?
«Per me sì, ma io posso spiegare il mio modo, altri pensano “adesso o mai più” e vincono, io devo provare a non pensarci».

Nel distico del libro Ricordati di dimenticare la paura, lei scrive:  «Ricordate che le vittorie non determinano quello che siete ma viceversa». Il senso è qui?
«Se ti senti un campione il più delle volte lo diventi, tanti vincono e perdono le gare ancora prima di entrare in pedana: lo vedi dagli occhi. Il giorno prima in allenamento tutti con performance da record del mondo: la mattina della gara a colazione li guardi negli occhi. Quello va in finale, quello vabbè. E quasi sempre ci azzecchi. Non c’è solo chi finisce in depressione avendo perso, ci sono anche quelli che perdono la testa avendo vinto: se la classifica è l’unico metro che hai è ovvio che se vinci le Olimpiadi tu ti senta Dio in terra, ma non lo sei. Vedi di tutto: coppie che si sono separate perché uno ha vinto le Olimpiadi ed è diventato un altro. Servono i piedi per terra. Io devo ringraziare i miei, la mia ragazza Petra (Zublasing, coppa di cristallo a tre posizioni pure lei  ndr.)». 

Nel libro ci sono anche avversari, Emmons per esempio…
«In Emmons rivedevo me stesso all’ennesima potenza, a lui sono capitate cose veramente tragicomiche, come lo zero all’ultimo tiro della finale olimpica per aver fatto centro nel bersaglio dell’avversario. Il modo in cui aveva perso è stata una delle cose più belle che io abbia visto nello sport. Era sotto choc ma dopo dieci minuti era lì a rilasciare interviste, dicendo cose sensatissime. Lui riusciva a prenderla per quello che era. Il giornalista in quei casi cerca la frase a effetto e quello rispondeva con filosofia di stampo zen. Il giornalista lo guardava basito, anche perché ormai cercano il sensazionalismo in tutto. Emmons mi ha insegnato a perdere, condizione necessaria per imparare a vincere».

Ed Etzel, psicologo americano, ex tiratore, campione olimpico a Los Angeles 1984, invece, che ruolo ha avuto?
«Con lui c’è un rapporto diverso, di grande stima, non posso dire affetto, perché è sempre stato bravissimo a mantenere le distanze. Appena vinci l’olimpiade sembra che tu abbia la strada segnata chissà per quanto, lui ha vinto l’olimpiade e cambiato tutto. Ha smesso di tirare esplorato altri mondi: ho ammirato suo essere persona capace di impedire che il passato diventasse un elemento in grado di condizionare negativamente il futuro. Poi siamo andati anche molto sul personale: ridefinire l’equilibrio di un atleta ad alto livello vuol dire definire l’equilibrio di un ragazzo».

 Si tende a dimenticare che gli atleti di alto livello sono ragazzi?
«A volte. Per questo mi piace lavorare con i ragazzini, se si fidano di te puoi provare a trasmettere loro il senso delle cose: non devi perdere mai di vista che cosa sei al di là delle gare, per ricordartelo non puoi fare solo una cosa: non puoi vivere solo per una ragazza, o solo per il tuo lavoro, o solo per il tuo sport, devi avere interessi diversi, sfide diverse. Se il tuo obiettivo è un risultato di classifica certezze non ne hai, se il tuo obiettivo è dare quel giorno il tuo meglio ci puoi lavorare e arrivare. È fantastico quando ci riesci. Tu puoi dirti ogni giorno: all’Olimpiade tiro per me, poi arrivi in testa all’ultimo colpo e lì vedi se hai mentito a te stesso».

È uguale in gara e fuori, stesso atteggiamento mentale?
«Sì, prima di Pechino se nello sport contava vincere, all’università ero uno che poteva rifiutare il 28. Poi è cambiato tutto, la cosa bella è che sono cambiato io come persona. Ho cambiato l’approccio alle passioni, se nello sport l’obiettivo è diventato fare il mio meglio, nello studio cerco il senso, se leggo un libro non lo leggo per prendere un bel voto all’esame, cerco di vedere in prospettiva come può essere utile al futuro. Se sapevo che ero passato a un esame non mi precipitavo più a vedere il voto. Tanto non scappa. Però sono un perfezionista, se faccio una cosa la voglio fare bene, se no non la faccio».  

 
 
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