Lo aspettavano con le bandierine e una gigantesca torta di datteri. Gli ospiti, tutti musulmani, del “Centro rurale dei servizi sociali”, a Témara, cittadina a una ventina di chilometri da Rabat, hanno accolto il Papa con un caloroso applauso. Le suore fanno qui asilo nido e pre scolastico fino ai sei anni. Nessun proselitismo tanto che, durante le lezioni si insegna la religione musulmana e si parla in arabo. Le vincenziane gestiscono anche un dispensario per ustionati che vengono da tutta la regione. In tutto circa 150 persone sono seguite ogni anno dal centro.

Dopo aver salutati uno a uno i bambini e le loro mamme e aver scherzato con le suore, il Papa è arrivato in cattedrale per l’incontro con i sacerdoti, religiosi, consacrati e il Consiglio Ecumenico delle Chiese.

Commovente l’abbraccio con il più anziano dei sacerdoti in Marocco, il padre Jean-Pierre Schumacher, 95 anni, monaco nella Trappe Notre-Dame de l'Atlas e unico sopravvissuto alla strage dei dodici monaci a Tibhirine. Un applauso sottolinea l’incontro. E un altro interrompe il discorsodi suor Mary Donlon, irlandese, superiora provinciale delle suore francescane missionarie di Maria, per la Tunisia, l’Algeria e il Marocco, quando presenta suor Ersilia, italiana, 98 anni che festeggia i suoi 80 anni di vita consacrata.

In tutto 46 sacerdoti, 4 vescovi, 10 religiosi non sacerdoti, 178 religiose, 6 membri di istituti secolari, 3 missionari laici e 2 catechisti. Su oltre 34 milioni di abitanti, appena 25mila cattolici. 

Un piccolo gregge, «ma questa realtà», dice il Papa, «non è, ai miei occhi, un problema, anche se riconosco che a volte può diventare difficile da vivere per alcuni». L’essere piccoli ricorda Francesco, rimanda alla domanda di Gesù: «A che cosa è simile il regno di Dio, e a che cosa lo posso paragonare? […] È simile al lievito, che una donna prese e mescolò in tre misure di farina, finché non fu tutta lievitata».

E allora, «parafrasando le parole del Signore», sottolinea Francesco, «potremmo chiederci: a che cosa è simile un cristiano in queste terre? A che cosa lo posso paragonare? È simile a un po’ di lievito che la madre Chiesa vuole mescolare con una grande quantità di farina, fino a che tutta la massa fermenti. Infatti, Gesù non ci ha scelti e mandati perché diventassimo i più numerosi! Ci ha chiamati per una missione. Ci ha messo nella società come quella piccola quantità di lievito: il lievito delle beatitudini e dell’amore fraterno nel quale come cristiani ci possiamo tutti ritrovare per rendere presente il suo Regno».

La missione dei battezzati, dei sacerdoti, dei consacrati, spiega il Papa non dipende dal numero o dalla «quantità di spazi che si occupano, ma dalla capacità che si ha di generare e suscitare cambiamento, stupore e compassione», dal modo in cui si condividono «il quotidiano, le gioie, i dolori, le sofferenze e le speranze». Il Papa condanna il proselitismo, che non è la via della missione: «La Chiesa», dice applaudito, «cresce non per proselitismo, ma per attrazione. Il proselitismo porta sempre a un vicolo cieco». Il problema «non è essere poco numerosi, ma essere insignificanti, diventare un sale che non ha più il sapore del Vangelo, questo è il problema, o una luce che non illumina più niente».

Non bisogna, allora, lasciarsi assillare dal «pensiero di poter essere significativi solo se siamo la massa e se occupiamo tutti gli spazi. Voi sapete bene che la vita si gioca con la capacità che abbiamo di “lievitare” lì dove ci troviamo e con chi ci troviamo». Forse no ci saranno «benefici apparentemente tangibili o immediati», ma occorre ricordarsi che «essere cristiano non è aderire a una dottrina, né a un tempio, né a un gruppo etnico. Essere cristiano è un incontro. Un incontro con Gesù Cristo. Siamo cristiani perché siamo stati amati e incontrati e non frutti di proselitismo. Essere cristiani è sapersi perdonati, sapersi e invitati ad agire nello stesso modo in cui Dio ha agito con noi, dato che “da questo tutti sapranno che siete miei discepoli: se avete amore gli uni per gli altri”».

Bergoglio ricorda Paolo VI che, nell’enciclica Ecclesiam sua, parlava del dialogo della Chiesa con il mondo in cui vive: «La Chiesa si fa parola; la Chiesa si fa messaggio; la Chiesa si fa colloquio», scriveva papa Montini. E, aggiunge Bergoglio, «affermare che la Chiesa deve entrare in dialogo non dipende da una moda, la moda cristiana, tanto meno da una strategia per aumentare il numero dei suoi membri. Se la Chiesa deve entrare in dialogo è per fedeltà al suo Signore e Maestro che, fin dall’inizio, mosso dall’amore, ha voluto entrare in dialogo come amico e invitarci a partecipare della sua amicizia».

Il Papa invita a portare avanti questo dialogo, «con un amore fervente e disinteressato, senza calcoli e senza limiti, nel rispetto della libertà delle persone», tenendo come esempio san Francesco d’Assisi che, in piena crociata, andò ad incontrare il Sultano al-Malik al-Kamil, e il Beato Charles de Foucault «che, profondamente segnato dalla vita umile e nascosta di Gesù a Nazaret, che adorava in silenzio, ha voluto essere un “fratello universale”», e tutti «quei fratelli e sorelle cristiani che hanno scelto di essere solidali con un popolo fino al dono della propria vita».

Un dialogo che diventa preghiera quando si chiede per tutti il pane quotidiano, e che si può realizzare concretamente in nome «della “fratellanza umana” che abbraccia tutti gli uomini, li unisce e li rende uguali. In nome di questa fratellanza lacerata dalle politiche di integralismo e divisione e dai sistemi di guadagno smodato e dalle tendenze ideologiche odiose, che manipolano le azioni e i destini degli uomini», dice Francesco citando la Dichiarazione di Abu Dhabi.

E ricorda ancora che «la preghiera non distingue, non separa e non emargina, ma si fa eco della vita del prossimo; preghiera di intercessione che è capace di dire al Padre: “Venga il tuo regno”. Non con la violenza, non con l’odio, né con la supremazia etnica, religiosa, economica, ma con la forza della compassione, con la forza della compassione riversata sulla Croce per tutti gli uomini».

Infine il Papa ringrazia i religiosi e i consacrati per quanto fanno in Marocco  «trovando ogni giorno nel dialogo, nella collaborazione e nell’amicizia gli strumenti per seminare futuro e speranza. Così smascherate e riuscite a mettere in evidenza tutti i tentativi di usare le differenze e l’ignoranza per seminare paura, odio e conflitto. Perché sappiamo che la paura e l’odio, alimentati e manipolati, destabilizzano e lasciano spiritualmente indifese le nostre comunità».

E chiama all’ecumenismo della carità: «Continuate così», dice, «prossimi di coloro che sono spesso lasciati indietro, dei piccoli e dei poveri, dei prigionieri e dei migranti. Che la vostra carità si faccia sempre attiva e sia così una via di comunione tra i cristiani di tutte le confessioni presenti in Marocco: l’ecumenismo della carità. Che possa essere anche una via di dialogo e di cooperazione con i nostri fratelli e sorelle musulmani e con tutte le persone di buona volontà. È la carità, specialmente verso i più deboli, la migliore opportunità che abbiamo per continuare a lavorare in favore di una cultura dell’incontro. Che essa infine sia quella via che permette alle persone ferite, provate, escluse di riconoscersi membri dell’unica famiglia umana, nel segno della fraternità».