Fratel Fabio Mussi del Pime.
«Se Boko Haram chiude le scuole, noi ne apriamo delle altre, se Boko Haram distrugge gli ospedali, noi creiamo un ambulatorio mobile per vaccinare e curare. Questi estremisti non si combattono solo con le armi; l’istruzione è fondamentale, così come creare lavoro, perché quando i giovani non sanno che cosa fare della loro giornata, diventano facile preda di chi offre loro un’ideologia forte, oltre che – non è cosa da sottovalutare – uno stipendio di 150 euro al mese, che in queste terre è un miraggio».
A parlare così è fratel Fabio Mussi, del Pime, che, sollecitato dalle domande della giornalista Anna Pozzi, ha portato oggi al Festival Biblico di Vicenza la sua testimonianza quarantennale di missionario in Africa e, soprattutto, dal 2009, quale responsabile Caritas nell’Estremo nord del Camerun, nella diocesi di Yagoua. Proprio in quella fascia di terra pre-desertica, al confine con la Nigeria a ovest e con il Ciad a nord, martoriata dalle incursioni dei miliziani islamisti, perché da quelle frontiere disegnate sulla carta, ma che non sono mai diventate reali, è sempre passato di tutto: pezzi di ricambio che in Nigeria costano meno, carburante, droga, e oggi armi e persone: profughi, ma anche miliziani. Armi che si cerca di mimetizzare obbligando le donne a nasconderle nelle grandi ceste che portano sulla testa, in mezzo alle poche cose di proprietà, salvate dalle razzie.
«All’inizio come Chiesa, ma anche lo Stato, avevamo sottovalutato il fenomeno. C’era stato qualche piccolo attacco, a cui non avevamo dato la giusta importanza. La situazione si è poi evidenziata in tutta la sua gravità, quando sono iniziati i rapimenti: una famiglia francese, poi padre Georges Vandenbeusch, poi i nostri vicentini don Giampaolo Marta e don Gianantonio Allegri, con la canadese suor Gilberte Bussière. A quel punto anche lo Stato ha capito che Boko Haram, non era più solo in Nigeria, ma era penetrato in Camerun. I rapimenti servivano ad un duplice scopo: finanziarsi, ma soprattutto emergere sulla scena internazionale, attraverso i media. Quanti siano i miliziani non è facile da sapere. Si parla di 30mila impegnati direttamente con almeno 100mila persone che li sostengono.
Nell’ultimo mese e mezzo, la situazione si è un po’ calmata, sia a seguito delle elezioni in Nigeria, che dell’azione militare dell’esercito ciadiano, entrato in Nigeria con l’obiettivo di chiudere il gruppo terrorista in una morsa, e annientarlo. L’operazione è riuscita in parte, ma sicuramente gli islamici hanno preso una “bella bastonata”. L’Islam qui come vede tutto questo? La maggior parte dei musulmani moderati non sostiene i miliziani, ma neppure c’è un rifiuto netto. Quando sarà finita, si porrà il problema della riconciliazione. Perché attualmente – un po’ in automatico – si è creata una separazione fra cristiani e musulmani. E’ venuta a mancare la fiducia tra le religioni, tra le etnie».
Dal 2010, quando è iniziata l’espansione di Boko Haram in Nigeria, ci sono stati più di 22mila morti. Quando poi hanno cominciato a sconfinare, 75mila camerunensi hanno dovuto andarsene dalle aree di confine per l’insicurezza crescente. Successivamente, in Camerun sono arrivati 87mila rifugiati nigeriani, che stanno mettendo a dura prova il Paese. In 50mila sono stati sistemati nell’unico campo profughi costruito dall’UNHCR a Minawao, una novantina di chilometri dalla capitale regionale Maroua. Gli altri sono rimasti sul territorio, perché non vogliono allontanarsi troppo dalle loro case nella speranza di potervi ritornare.
Come opera la Caritas?
«Sosteniamo 12mila persone rifugiatesi nella cittadina frontaliera di Fotokol, nella nostra diocesi. Si sono costruite, con erba e rami, delle capanne di fortuna, utili per il sole – adesso in Camerun ci sono 47, 48 gradi di giorno, che scendono a 38 di notte, quindi un caldo infernale -, ma che saranno invece inutili quando, tra un mesetto, arriverà la stagione delle piogge. Quindi, stiamo cercando di dare loro una mano. Poiché i bisogni sono davvero tanti, siamo stati costretti a selezionare: forniamo cibo (40 tonnellate di alimenti ogni 15 giorni), acqua pulita (a queste temperature ci vogliono almeno 20 litri al giorno per persona), perché altrimenti si sarebbero già scatenate le epidemie. La scorta armata, che ci ha fornito il governo, ci dà una certa sicurezza e ci permette di oltrepassare abbastanza rapidamente i posti di blocco. Anche rispetto al fronte sanitario, abbiamo dovuto fare una scelta, sulla base delle risorse che abbiamo: possiamo curare 400 persone alla volta, non di più. Finora abbiamo effettuato 9.924 visite, 6.850 vaccinazioni contro la meningite, e abbiamo curato 5.980 malati, tra cui anche feriti di guerra. Questo pone anche una questione di tipo morale. Come fai a sapere se la persona che curi è un civile innocente, oppure un miliziano? Noi missionari abbiamo deciso di considerarli sempre persone. Tuttavia, per il personale locale, dove c’è chi ha perso un familiare o la casa, è tutto più difficile. Stanno anche crescendo i traumi da stress; abbiamo centinaia di casi di persone “psicologicamente deboli” e possiamo contare su un unico psichiatra».
Perché è importante mantenere in queste zone una presenza di Chiesa?
«Perché i nostri cristiani hanno bisogno di sostegno. In questa zona il 40 per cento della popolazione è musulmana, il 20 per cento cristiana, il resto sono animisti. Ma i centri di potere sono in mano ai musulmani, quindi i cristiani sono una minoranza in un ambiente islamizzato. Il rischio è che, non sentendosi sostenuti, decidano di emigrare, o di cambiar bandiera. Siamo lì anche per dire loro che non sono abbandonati. Tuttavia, non ci occupiamo solo dei cristiani, sui 1.500 alunni delle nostre scuole, tre quarti sono musulmani. Noi vogliamo che la nostra presenza sia segno di speranza per tutta la popolazione».