Accadde settant’anni fa esatti. Il 26 gennaio 1943 una vittoria sancì la sconfitta. A Nikolaevka gli alpini ruppero l’assedio dei russi e uscirono dalla “sacca” del Don. Fu l’ultimo atto militare di una tragedia umana e politica: la ritirata di Russia. I soldati italiani erano equipaggiati in modo totalmente inadeguato, non avevano una preparazione specifica rispetto al territorio e al nemico da affrontare, ma si dimostrarono ricchi di una dignità che ce li ha resi come degli eroi.
Dal luglio 1942 erano circa 230.000 i militari italiani mandati sul fronte orientale, al fianco della Germania, inquadrati nell’Armata italiana in Russia (Armir)i. Tra quelle schierate, tre divisioni erano composte da alpini: la Cuneense, la Julia e la Tridentina. Nonostante l’impreparazione per un terreno di scontro non abituale e l’insufficiente equipaggiamento, i soldati italiani si distinsero per eroismo e generosità.
L’ultima vittoria, anche se inutile, fu conseguita proprio a Nikolaevka, il 26 gennaio 1943. Gli italiani cercavano di ritirarsi dalla “sacca del Don”, circondati dai soldati sovietici che, dopo la grande offensiva dell’Armata rossa iniziata l’11 dicembre 1942, stavano avendo ormai la meglio. La battaglia di Nikolaevka fu uno degli episodi decisivi per la ritirata delle truppe dell’Asse. Tra le nostre unità ancora operative c’era la divisione Tridentina, che assaltò la cittadina di Nikolaevka. Pur se in minoranza rispetto ai russi, gli italiani riuscirono a sostenere l’attacco. In serata, i battaglioni Edolo e il gruppo d’artiglieria alpina Valcamonica aprirono un varco fra i russi grazie anche all’appoggio di alcuni carri armati tedeschi.
A costo di enormi sacrifici, gli italiani riuscirono a tenere Nikolaevka, per poi poter ripartire verso ovest. Le truppe dell’Asse riuscirono, infatti, a raggiungere Shebekino il 31 gennaio, lasciando sul campo oltre 3.000 fra morti, feriti o prigionieri. All’inizio della ritirata, il 17 gennaio 1943, il Corpo d’armata alpino contava 61.155 uomini. Dopo la battaglia di Nikolaevka, 13.420 militari uscirono dalla sacca trasportando, spesso su mezzi di fortuna, 7.500 soldati colpiti. L’Armir registrò, in tutto, 85.000 caduti e 30.000 tra feriti e congelati.
Il generale Biagio Abrate è capo dello Stato maggiore della Difesa. E' un alpino. Appartiene a uno dei corpi militari più noti (e più amati) che hanno scritto una delle pagine più dense della campagna di Russia. È a lui che chiediamo, dunque, che cosa è cambiato in questi settant’anni per questa specialità della fanteria italiana.
Quali sono le differenze tra settant’anni fa e oggi?
«In settant’ anni è cambiato molto di ciò che sono l’impiego e le capacità operative dei reparti alpini. Allora il personale si muoveva quasi esclusivamente a piedi e con l’ausilio di quadrupedi per il trasporto dei materiali più pesanti. I famosi muli, a cui tanto debbono i nostri “veci”, e che ho avuto modo di apprezzare da comandante di compagnia. La realtà di oggi è completamente diversa. Gli alpini hanno in dotazione veicoli dotati di una significativa protezione per poter resistere agli ordigni che infestano le piste dell’Afghanistan, e dispongono di equipaggiamenti all’avanguardia, in molti casi di qualità superiore a quelli dei Paesi alleati: radio, visori notturni e armamento tecnologicamente avanzati. Inoltre è cambiata anche la “geografia” degli alpini. Fino al 2005, con la leva, gli alpini provenivano per la quasi totalità dalle zone montuose. Oggi sono un esatto spaccato della realtà nazionale: il reclutamento viene effettuato in tutta Italia. Ne consegue che, percentualmente, forse sono meno presenti i dialetti del nord ma le tradizioni, l’abitudine al sacrificio, l’esercizio della fatica che solo la montagna insegna, questi sono rimasti inalterati e, integri nella loro essenza, si sono trasmessi nel tempo e nello spazio dalle nevi del Don alle sabbie dell’Afghanistan».
Cosa resta negli alpini di oggi dell’esperienza vissuta in Russia dai loro predecessori?
«Da militare non posso che rispondere citando, prima di tutto, le bandiere e le decorazioni che le ornano. Tutti i reggimenti delle Forze armate traggono origini, nomi e tradizioni dai reggimenti e dai battaglioni che li hanno preceduti. Le bandiere che vedete schierate nelle cerimonie solo quelle che erano in Russia, in Grecia e ovunque i reparti alpini siano stati inviati. Ma oltre al simbolismo, c’è qualcosa di più profondo che si percepisce avendo a che fare con gli alpini. Ancora oggi, quando si parla di determinazione e volontà di non mollare, i “nostri” alpini citano la difesa sul Don come se fossero loro stessi al fianco di coloro che lì si sacrificarono. È stata metabolizzata un’epopea soprattutto grazie all’Associazione nazionale alpini che svolgono un lavoro prezioso per mantenere viva la fiamma del ricordo e l’alpinità».
In quali scenari sono impegnati oggi gli alpini?
«Attualmente sono impiegati nelle missioni più delicate delle Forze armate. La loro caratteristica di fanteria leggera fa si che siano flessibili nell’impiego e adattabili a ogni evenienza. La cultura alpina, inoltre, consente un approccio con le popolazioni, nelle aree di crisi tipica delle genti e dei reparti italiani, che si potrebbe definire “ispiratrice della dottrina Nato”, cioè un approccio che tiene nella giusta considerazione il rispetto di tradizioni, cultura e religioni delle popolazioni locale, fornendo sicurezza innanzitutto, ma aiutando anche lo sviluppo di piccole e grandi comunità. Insomma, per noi è importantissimo costruire. Direi che è quasi una vocazione».
La terribile epopea dell’esercito italiano in Russia si è anche trasformata, gioco forza, in un’eccellente produzione storica, letteraria, cinematografica, che si è andata ad aggiungere alle molte storie di vita vissuta degli italiani durante la seconda guerra mondiale. Le pagine magistrali che nel dopoguerra ci hanno lasciato scrittori e storici, da Egisto Corradi a Nuto Revelli, da Mario Rigoni Stern ad Arrigo Petacco, si sono sommate ai racconti dei reduci, piccole vicende quotidiane che hanno segnato la vita di tutti i giorni dei militari in guerra. E anche il cinema ha voluito e saputo raccontare quegli anni, con film come Italiani, brava gente, o I girasoli.
Da episodi in cui ai nostri soldati i civili russi hanno riconosciuto umanità, generosità e spirito di fraternità, ad aneddoti che hanno colorato ulteriormente quell’anno e mezzo terribile passato in guerra contro i sovietici, chi è tornato dall’inferno russo non ha mai smesso di raccontare quanto accadde. Tanti gli episodi, dai più celebrati a quelli che magari hanno finito per concentrare l’attenzione “solo” di parenti e amici di chi quell’avventura l’ha vissuta sulla propria pelle. E oggi, a segnare la continuità di un percorso della memoria del Paese, l’epopea dell’Armir, l’armata militare italiana in Russia, continua a interessare e a commuovere anche attraverso Internet.
Tra i tanti episodi di colore, basterebbe citare la storia del cammello di Milano. Tra gli alpini in ritirata, infatti, c’era anche un cammello, probabilmente abbandonato dai russi che lo avevano usato allo stesso modo di come gli alpini usano i muli. Gli italiani lo portarono con loro e non ne vollero sapere di abbandonarlo, una volta usciti dall'allora Unione Sovietica. Così, quel cammello marciò e viaggiò fino a Milano e finì nello zoo comunale dove, secondo le testimonianze dell’epoca, si sarebbe lasciato morire di fame, non avendo più accanto quegli uomini che lo avevano portato con loro in quel viaggio dalla tragedia alla speranza.