Il magistrato palermitano Nino Di Matteo si è iscritto alla facoltà di Giurisprudenza di Palermo dopo l’assassinio del procuratore Gaetano Costa, si è laureato nell’anno dell’uccisione degli investigatori Ninni Cassarà e Beppe Montana, ha vinto il concorso in magistratura nell’anno dell’omicidio del giudice Scopelliti per indossare per la prima volta la toga di pubblico ministero subito dopo la strage di Capaci. «Negli anni Ottanta, come tanti giovani siciliani, consideravo Falcone il simbolo più grande di un possibile riscatto della nostra terra», dice. «La speranza di un cambiamento profondo di quel sentire mafioso che, come una cappa opprimente, soffoca la speranza. Avevo studiato per diventare magistrato per occuparmi di mafia, avevo da poco realizzato il mio sogno di stringere la mano al giudice Falcone, al punto di riferimento ideale del mio impegno. Può immaginare le sensazioni di sgomento che mi assalirono alla notizia della strage. Come tanti, allora giovani, magistrati, il 23 maggio del 1992 rimarrà uno spartiacque indimenticabile della nostra vita. Abbiamo il dovere di coltivare la memoria, non come sterile esercizio retorico ma per comprendere ed evitare che si ripeta in futuro il tragico contesto che portò Falcone prima all’isolamento e alla delegittimazione e poi, inevitabilmente, alla morte».
Qual è l’eredità morale e giudiziaria di Falcone?
«Ha trasmesso a tutti gli italiani una bellissima, e per questo impegnativa, eredità. L’amore per il proprio Paese, la passione per la verità, la grande intelligenza di considerare la mafia come una vera e propria emergenza democratica e non semplicemente come un’ordinaria questione criminale. La sua vita è stata emblema della capacità di resistere alla tentazione della rassegnazione, del quieto vivere, del conformismo e dell’opportunismo. A noi magistrati in particolare ha lasciato in eredità la sua enorme professionalità, l’autentica indipendenza da altri poteri e, ancor più nello specifico, la consapevolezza che da sempre Cosa nostra si è avvalsa di complicità insospettabili per realizzare i suoi scopi criminali».
È convinto che ci sia un legame tra la strage di Capaci e la lunga stagione dei precedenti delitti eccellenti?
«Non possono esserci dubbi sulla necessità di inquadrare la strage di Capaci in una strategia più ampia. La storia di Cosa nostra dimostra che delitti eccellenti di questa portata non sono mai isolate reazioni di semplice vendetta ma si inquadrano in un contesto nel quale concorrono altre finalità, di prevenzione o di vero e proprio terrorismo mafioso, con la convergenza di interessi anche esterni alla struttura militare dei clan».
Come reputa lo stato della mafia e dell’antimafia oggi?
«Vedo un quadro in chiaroscuro. Le mafie hanno diversicato i loro interessi, si sono radicate anche in territori diversi da quelli originari, tendono sempre più a riciclare i loro capitali sporchi in attività apparentemente pulite. L’Antimafia – che a livello giudiziario ha saputo reagire al meglio contro gli aspetti più violenti del fenomeno (i traffici di droga, le estorsioni, i fatti di sangue) – deve ora trovare lo slancio per operare un salto di qualità in tre direzioni: l’individuazione dei grandi canali di riciclaggio, la scoperta e la recisione dei rapporti esterni con il potere politico e imprenditoriale, l’approfondimento ulteriore delle inchieste sulle stragi e su molti delitti eccellenti (probabilmente non solo di mafia)».
Può spiegare l’importanza della proposta sull’estensione della confisca dei beni ai corrotti, presentata da Antonio Ingroia e Franco La Torre con il suo autorevole supporto?
«Oggi, più che mai, mafia e corruzione rappresentano due facce della stessa medaglia. Metodi violenti e corruttivi vengono, alternativamente o cumulativamente, adoperati per gestire illecitamente grandi affari. Dobbiamo avere l’onestà intellettuale di ammettere che oggi il fenomeno della corruzione in Italia è sostanzialmente impunito. Basta analizzare le statistiche sul numero, veramente esiguo, dei detenuti che stanno scontando una pena denitiva per quel tipo di reato. Dobbiamo fare in modo che i potenziali corrotti perdano la garanzia dell’impunità; l’estensione dell’applicabilità di misure patrimoniali anche nei loro confronti (come per gli indiziati mafiosi) segnerebbe un’importante svolta in direzione di un controllo di legalità finalmente più efficace anche per quanto riguarda i colletti bianchi».
Perché a livello mediatico e politico c’è la tendenza a minimizzare le notizie su mafia e corruzione?
«Ancora oggi nel nostro Paese una parte non irrilevante del potere non sopporta che la legge sia veramente uguale per tutti. Molti vorrebbero una magistratura che si limiti a reprimere la criminalità degli “ultimi” della società e indulgente invece nei confronti dei potenti e dei ricchi. A questa pretesa, pericolosa e antidemocratica, dobbiamo contrapporre lo sforzo costante per applicare veramente i sacri principi di eguaglianza e solidarietà della nostra Costituzione. Lo dobbiamo fare a ogni costo, anche per onorare la memoria di chi, come il giudice Giovanni Falcone, per quegli ideali ha sacrificato la propria vita».